L’accertamento della morte clinica (2006)

 

Angel Rodríguez Luño

 

1. Il criterio neurologico per l’accertamento della morte

Il problema della determinazione del momento della morte ha importanti ripercus­sioni mediche, legali, sociali e religiose. Si può ben capire che lo sforzo compiuto negli ultimi decenni per adeguare il con­cetto di morte clinica ai più recenti sviluppi della scienza medica abbia suscitato un interessante dibattito non solo tra i medici, che desiderano sapere fino a quando continuare una determi­nato trattamento o quando poter disporre di un organo per un trapianto, ma anche tra i filosofi e i teologi[1].

L’oggetto dei recenti dibattiti non è tanto il concetto filosofico di morte, secondo il quale essa consiste nella separazione dell’anima dal corpo, quanto l’accer­tamento della morte clinica. Essa veniva tradizionalmente identi­ficata con l’interruzione irreversibile della respirazione e della circolazione sanguigna. I progressi della medicina, e in particolare delle tecniche di rianimazione, hanno costretto a relativizzare questa concezione. In effetti, se grazie a diverse tecniche può tornare a vivere un paziente che ha subito un arresto cardio-respiratorio, è chiaro che questo arresto non può identifi­carsi sempre e in modo assoluto con la morte. Questi fatti hanno portato a spostare l’attenzione della medicina dal cuore al cervello, formulando un criterio neurologico per l’accertamento della morte, sul quale c’è stato, e in parte c’è ancora, una vivace discussione, che mette a confronto diverse concezioni della morte. In essa si possono registrare tre tendenze fonda­mentali:

1) Alcuni autori intendono la morte come un processo e non come un fatto o evento, basandosi sul fatto che in tutti i tessuti dell’organismo avvengono una serie di cambiamenti degenerativi e distruttivi normalmente conseguenti, ma a volte previ, alla irreversibile cessazione della respirazione spontanea e della circo­lazione sanguigna; per esempio: la necrosi di cellule del cervello e di altri organi vitali, il raffreddamento, il rigor mortis, la lividezza cadaverica, ecc. Questo tipo di processi si prolungano per anni, a volte moltissimi, finché lo scheletro si disintegra.

2) Altri autori definiscono la morte come la perdita irreparabile di ciò che è essenzialmente significativo della natura umana[2], cioè delle funzioni superiori di indole conoscitiva, volitiva e di stabilire relazioni con l’ambiente. Questa tesi sembra contraddire il senso morale comune e la prassi medica più abituale: non si è soliti dubitare che siano vivi i pazienti comatosi o quelli che versano nel cosiddetto stato vegetativo persistente, i quali, per aver sofferto danni alla corteccia cerebrale, sono incapaci di atti coscienti, ma si trovano in una situazione stabile nella quale si man­tengono spontaneamente (senza ventilatore meccanico) le altre funzioni vitali.

3) Altri infine ritengono che la morte è un fatto che non deve essere confuso né con l'agonia che la precede, né con il conseguente processo dì disintegrazione di cellule e tessuti (la morte biologica). Questi autori definisco­no la morte come la cessazione permanente del funzionamento dell’organismo umano come un tutto[3]. Questo non significa che la morte sia la cessazione della somma delle funzioni di tutti gli organi. La morte è l’interruzione permanente delle complesse relazioni funzionali tra i diversi organi. Il “funzionamento dell’organismo come un tutto” significa il mantenimento delle relazioni spontanee e innate degli organi presenti nel corpo. Più concreta­mente, devono sussistere le attività spontanee effettuate dall’integrazione di tutti o dalla maggioranza dei sottosistemi (per esempio, il controllo neuroendocrino) e alcune risposte limitate all’ambiente (cambiamenti di temperatura e reazioni alla luce e al suono). Tuttavia l’integrazione di tutti i sottosistemi non è necessaria poiché alcu­ni di essi possono essere sostituiti (pace-maker, ecc.), senza che perciò venga meno il funzionamento dell’organismo nel suo insieme.

I sostenitori della posizione 1) considerano che fissare in un punto quel processo graduale, come momento della morte, sarebbe arbitra­rio, e perciò non accettano facilmente il criterio neurologico. Senza entrare nel merito della questione, si può osservare che questa posizione riguarda più la morte biologica che la morte clinica, e che risulta impraticabile dal punto di vista medico (fino a quando continuare le terapie?), legale (quando è esecutivo un testamen­to?), sociale e religioso.

Per i seguaci della posizione 2) la morte clinica consiste nella cessazione irreversibile del funzionamento del solo cervello o corteccia cerebrale (funzioni superiori), perché allora sarebbe definitivamente perduto ciò che è essenzialmente significativo della natura umana. Questa posizione non ci sembra accettabile.

Tra coloro che condividono la posizione 3) ci sono due posizioni:

a) La più comune sostiene che l’essere umano è morto solo quando si è avuta la cessazione irreversibile del funzionamento dell’intero encefalo: cervello, cervelletto e tronco encefalico (“morte cerebrale totale”), perché solo allora si può parlare della cessazione del funzionamento dell’organismo come un tutto. Questa posizione è stata assunta dall’Associazione Medica Mondiale (Dichiarazione di Sidney, 1968, riveduta nella XXXV Assemblea, tenuta a Venezia nel 1983), dalla Commissione convocata dal Presidente degli Stati Uniti d’America e dalla Pontificia Accademia delle Scienze (ottobre 1985)[4]. La Commissione convocata dal Presidente degli Stati Uniti la esprime nel modo seguente:

Un individuo che ha sofferto

i) la cessazione irreversibile delle funzioni circolatorie e respiratorie o,

ii) la cessazione irreversibile delle funzioni del completo encefalo,

è morto.

    Il criterio i) si applica ai pazienti non sottoposti a ria­nimazione. Il criterio ii) a quelli che sono sottoposti ad essa. Si tende a considerare il criterio ii) come il vero criterio della morte, giacché la cessazione definitiva della funzione cardiaca e respiratoria conduce rapidamente alla morte encefalica[5].

b) In Gran Bretagna, al contrario, la Conferenza dei Reali Collegi Medici ha concentrato la sua attenzione sul criterio basato sulla cessazione irreversibile del funzionamento del tronco encefalico[6]. I sostenitori di questo criterio segnalano che senza il funzionamento del sistema reticolare attivatore ascendente (ARAS) non solo non è possibile la coscienza, ma nemmeno la respirazione e l’integrazione delle altre funzioni vegetative, per cui, una volta “morto” il sistema reticolare, il cuore e la corteccia cerebrale verranno privati dall’ossigeno e cesseranno le loro funzioni, arrivando fino alla morte del completo encefalo. La cessazione delle funzioni del tronco encefalico è considerata come il “nucleo fisiologico” della morte encefalica e come la determinante della cessazione del funzionamento dell’encefalo nel suo insieme.

La Commissione Presidenziale degli Stati Uniti sostiene che il criterio inglese offre più una prognosi che una diagnosi, cioè considera un momento in cui il processo che conduce alla morte è inarrestabile, non la morte avvenuta. Il criterio della Commissione Presidenziale si basa sulla constatazione della “morte” dell’intero encefalo; il criterio inglese sulla constatazione della cessazione del fun­zionamento dell’encefalo nel suo insieme giacché questo funzionamento integrato non può aversi se è morto il tronco encefalico. I sostenitori di quest’ultima opinio­ne considerano il criterio della Commissione Presidenziale come un eccesso di cau­tela. Al contrario, quelli che non la accettano potrebbero dire, per esempio, che è difficile considerare già morta una persona con il tronco encefalico irreversibilmen­te danneggiato, la cui respirazione viene mantenuta artificialmente, nella cui cor­teccia cerebrale l’elettro­ence­falogramma registra ancora una qualche attività[7].

In ogni caso, una volta accettato un criterio neurologico per accertare la morte clinica, devono essere individuati i test per verificare se un determinato paziente è morto. Si tratta di un tema eccessivamente tecnico, sul quale non siamo competenti. Avvertiamo tuttavia che esistono tre casi nei quali la dia­gnosi è specialmente difficile, per la quale bisogna impiegare schemi diagnostici più complicati e in ogni caso estrema cautela, giacché non sono definitivi i parame­tri e i sintomi che in altre situazioni significano irreversibilità. Questi casi sono: 1) determinazione della morte encefalica dei bambini; 2) diagnosi in casi di ipoter­mia; 3) diagnosi in casi di intossicazione causata da droghe sedative e anestetiche (barbiturici, benzodiazepine, ecc.). La legislazione statale di ogni paese di solito fissa alcuni requisiti per la certificazione della morte, soprattutto quando si devo­no fare trapianti di organi. Bisogna osservare, infine, che come in ogni diagnosi medica anche qui si possono verificare degli errori umani, che portano a considerare morto chi in realtà è vivo (falso positivo) o a considerare vivo chi in realtà è morto (falso negativo). Ma l’errore diagnostico del medico in un caso concreto non implica necessariamente che il criterio di morte accettato non sia affidabile, così come l’errore nella diagnosi di epatite di un malato da parte di un medico in un caso concreto non comporta che le conoscenze della medicina attuale sull’epatite non siano esatte.

2. Considerazioni antropologiche

Dal punto di vista antropologico si può affermare che dal fatto che un indivi­duo della specie umana rimanga permanentemente e irreversibilmente impossibi­litato ad esercitare le facoltà razionali, non è legittimo concludere che questo indi­viduo non è una persona umana viva o che non possiede l’anima razionale. L’anima viene definita, già da Aristotele, come l’atto primo di un corpo naturale organizzato[8] o come quello per cui primariamente viviamo, cambiamo di posto, e comprendiamo[9]. I termini “primo” e “primaria­mente” alludono alla distinzione tra l’anima e le potenze operative, che risponde alla stessa condizione metafisica di creatura (non iden­tità tra essere e agire, ecc.). L’anima è atto primo, le operazioni vitali sono atto secondo. Questo vuol dire che quando si realizza un’operazione vitale, c’è certa­mente un passaggio dalla potenza all’atto, ma ciò che passa dalla potenza all’atto non è l’anima, ma la potenza operativa (l’intelligenza, la volontà, ecc.). L’impossibilità di conoscere implica l’impossibilità che l’intelligenza passi all’atto, ma non toglie all’anima nulla della sua attualità, perché l’atto dell’anima non è l’operazione (atto secondo).

Solo quando scompare la vita in atto primo — della quale l’anima è principio primo — possiamo dire che l’anima si è separata dal corpo. L’impossibilità di eser­citare alcune operazioni (atti secondi) non permette di affermare la separazione dell’anima. L’anima deve porsi in relazione con la vita (in atto primo), per cui solo una lesione organica che causi il fine della vita dell’intero organismo, e non solo la fine delle operazioni di una facoltà, causa anche la separazione dell’anima. L’anima non è una determinata strutturazione del corpo ma ne è la causa e fa sì che questo corpo organizzato funzioni come un tutto. È proprio dell’anima anima­re e unificare l’insieme, fare da principio unificatore delle parti di esso. Se la presenza dell’anima causa e si manifesta nel funzionamento dell’organi­smo come un tutto, bisogna dire anche che la manifestazione fenomenologica più caratteristica della separazione dell’anima è la cessazione del funzionamen­to dell’organismo come totalità unificata.

    Va tenuto presente, tuttavia, che quando l’anima umana si separa dal corpo, questo non si disintegra in un istante, ma cessa di comportarsi come un tutto. Non sembra ragionevole parlare di forma sostanziale di cadavere[10], come se il cadavere avesse l’unità propria di una sostanza vivente. Il cadavere, come tale, è morto. In esso può esserci ancora vita in senso biologico (vita di cellule, di raggruppamenti di cellule o tessuti), che si regola secon­do le leggi proprie di questo tipo di vita, ma in esso non c’è la vita propria dell’organismo umano. Non c’è niente di strano che se un organo o una cellula riceve ossigeno e alimentazione, quest’organo o questa cellula riman­ga preservato dalla putrefazione per qualche tempo, poco o molto. È una questio­ne di biologia elementare (citologia) o forse di biochimica, ma non di zoologia o di antropologia. Cioè, le strutture organiche formate e vivificate in un altro tempo dall’anima umana possono conservare per qualche tempo, se si danno le condizio­ni adeguate, la loro consistenza biologica e biochimica propria, d’accordo con le leggi generali della biologia inferiore e della biochimica, ma ciò non significa che sia vivo l’organismo superiore del quale tali cellule e organi formavano parte. Perciò non si sembra adeguata, a effetti clinici, la posizione di coloro che concepiscono la morte come un processo nel quale non è possibile determinare un momento particolarmente rilevante dal punto di vista clinico, sociale e legale.

3. Valutazioni conclusive

Se il modo in cui sono state rapportate le considerazioni mediche con quelle filosofiche è corretto, il concetto di morte come perdita irreparabile di ciò che è essenzialmente significativo della natura umana e il criterio clinico conseguente (cessazione irreversibile delle funzioni del solo cervello), sembra incompatibile con la concezione filosofica che a mio avviso meglio si adegua alla realtà dell’essere umano. Il concetto di morte come la cessazione permanente del funzio­namento dell’organismo umano come un tutto sembra invece adeguato dal punto di vista dei suoi presupposti o implicazioni filosofiche. La cessazione irreversibile delle funzioni dell’intero encefalo può esser accettata come criterio neurologico valido per l’accertamento della morte clinica. Resta fuori dalla mia competenza esprimere un giudizio sul valore sui test che vengono richiesti dalle legislazioni dei diversi paesi per arrivare alla diagnosi di morte. Neppure ho la competenza per esprimere un giudizio definitivo sulla tesi che adotta come criterio di morte la cessazione irreversibile delle funzione del tronco encefalico, anche se tale criterio suscita delle forte perplessità e non sembra attuabile in pratica finché tali perplessità vengano risolte.

Il criterio neurologico considerato accettabile è stato ampiamente accettato in ambito medico internazionale. Anche il magistero ordinario della Chiesa si è riferito al problema, in senso cautamente positivo. Vale la pena riportare qui interamente le parole di Giovanni Paolo II: «È ben noto che, da qualche tempo, diverse motiva­zioni scientifiche per l’accertamento della morte hanno spostato l’accento dai tradizionali segni cardio-respiratori al cosiddetto criterio “neurologico”, vale a dire alla rile­vazione, secondo parametri ben individuati e condivisi dalla comunità scientifica internazionale, della cessazione totale ed irreversibile di ogni attività encefalica (cervello, cervelletto e tronco encefalico), in quanto segno della perduta capacità di integrazione dell’organismo individuale come tale. Di fronte agli odierni parametri di accertamento della morte — sia che ci si riferisca ai segni “encefalici”, sia che si faccia ricorso ai più tradizionali segni cardio-respiratori —, la Chiesa non fa opzioni scientifiche, ma si limita ad esercitare la responsabilità evangelica di confrontare i dati offerti dalla scienza medica con una concezione uni­taria della persona secondo la prospettiva cristiana, evi­denziando assonanze ed eventuali contraddizioni, che po­trebbero mettere a repentaglio il rispetto della dignità umana. In questa prospettiva, si può affermare che il recente criterio di accer­tamento della morte sopra menzionato, cioè la cessazione totale ed irre­versibile di ogni attività encefalica, se applicato scrupolosamente, non appare in contrasto con gli elementi essenziali di una corretta con­cezione antro­pologica. Di conseguenza, l’operatore sani­tario, che abbia la respon­sabi­lità professionale di un tale accertamento, può basarsi su di essi per raggiungere, caso per caso, quel grado di sicurezza nel giudizio etico che la dottrina morale qualifica col termine di “certezza morale”, certezza ne­cessaria e suffi­ciente per poter agire in maniera eticamente corretta. Solo in presenza di tale certezza sarà, pertanto, moralmente legittimo attivare le necessarie procedure tecniche per arrivare all’espianto degli organi da trapiantare, previo consenso informato del donatore o dei suoi legittimi rappresentanti»[11].

Si deve registrare tuttavia che sono state sollevate dubbi e perplessità sulla validità del criterio neurologico per l’accertamento della morte clinica[12]. Alcuni autori affermano persino che il criterio della morte encefalica risulta inadatto o insufficiente a garantire la certezza morale della morte reale della persona. L’obiezione è sostenuta da studi che hanno presentato alcuni casi di pazienti che erano stati definiti “cerebralmente morti”, ma che davano ancora indubbi segni di vita[13]. Tali casi però, dopo un attento studio, risultarono essere o non ben documentati, oppure casi di non corretta applicazione dei criteri neurologici, con conseguente diagnosi errata di morte cerebrale[14].

L’obiezione più importante è quella che contesta il ruolo integrativo dell’encefalo. Essendo vero che, soprattutto con l’aiuto della ventilazione meccanica, la degradazione di alcune funzionalità o sottosistemi può essere progressiva, e non puntuale, è anche vero che la condizione di morte encefalica segna un punto di non ritorno assolutamente irreversibile[15].

Certamente non sono in grado di valutare tutti gli aspetti scientifici e di considerare chiusa la questione. Ritengo tuttavia che l’idea, oggi ampiamente condivisa in ambito medico, che il criterio neurologico, se è ben applicato, è idoneo per l’accertamento della morte, possa essere accettata, almeno fino alla produzione di evidenze in senso contrario. Ma andrebbe aggiunta un’osservazione importante. Si potrebbero evitare delle critiche e dei sospetti se venissero rispettati gli aspetti più intuitivi della questione. Ciò che suscita maggiori perplessità, e talvolta scandalo, e l’espianto di organi da cadavere a cuore battente. La risposta all’obiezione contro la “morte cerebrale” suscitata da quel tipo di espianto non tiene sufficientemente presente l’aspetto intuitivo del problema.

In questo caso concreto, in effetti, il nuovo criterio di diagnosi della morte (la cosiddetta morte encefalica) non solo è diverso e più avanzato rispetto a quello tradizionale (definitivo arresto cardiaco e respiratorio), ma viene usato in modo tale da opporsi al criterio tradizionale, urtando un’evidenza etica intuitiva secolare. Secondo tale uso del nuovo criterio, non è vero che una persona il cui cuore batte spontaneamente (ma non respira spontaneamente) non può essere considerata morta. Anche se scientificamente ciò ammette delle spiegazioni plausibili, intuitivamente non è ammissibile per i parenti, parte del personale medico e infermieristico, ecc. E questo aspetto intuitivo ha una sua rilevanza umana ed etica. In definitiva, per noi, che siamo convinti della validità del criterio neurologico per l’accertamento della morte, la fretta eccessiva dei medici che vogliono procedere allo espianto, solleva delle forti perplessità, e si può capire che tale fretta crei certo scandalo e renda difficile l’accettazione del criterio neurologico.



[1] Qui riprendiamo, con modifiche e aggiornamenti, gli elementi fondamentali di uno studio precedente: A. Rodríguez Luño, Rapporti tra il concetto filosofico e il concetto clinico di morte, «Acta Philosophica» 1 (1992) 54-68. Sul problema si veda anche: C. Manni, La morte cerebrale. Aspetti scientifici e problemi etici, «Medicina e Morale» 36/3 (1986) 495-499; E. Sgreccia, Aspetti etici connessi con la morte cerebrale, «Medicina e Morale» 36/3 (1986) 515-526; D. Lamb, Il confine della vita, Il Mulino, Bologna 1987; J. Colomo Gómez, Muerte cerebral. Biología y ética, Eunsa, Pamplona 1993.

[2] Cfr. R. Veatch, Death, Dying and the Biological Revolution. Our Last Quest for Responsability, Yale University Press, New Haven 1976 (esiste una “revised edition” del 1989).

[3] Cfr. J. Bernat - Ch. Culver - B. Gert, On the definition and criterion of death, «Annals of Internal Medicine» 94 (1981) 389-394.

[4] Cfr. President’s Commission for the Study of Ethical Problems in Medicine and Biomedical and Behavioral Research, Defining death, US Government Printing Office, Washington 1981. Il comunicato della Pontificia Accademia delle Scienze può essere consultato in «L’Osservatore Romano» 31-X-1985.

[5] Dal punto di vista anatomo-patologico, la perdita irreversibile del funziona­mento del completo encefalo (“morte encefalica”) è stata considerata come una necrosi asettica, colliquativa (Cfr. R. Lindberg, Sistemic oxygen deficiences: the respirator brain, in Aa.Vv., Pathology of the Nervous System, Mc Graw-Hill, New York 1971, pp. 1583-1617), dovuta all’arresto della circolazione encefalica che può originarsi per l’aumento anormale della pressione intercraneale o per un defi­cit di flusso (arresto cardiaco, shock). Ma la diagnosi di morte encefalica non fa attenzione al fenomeno di necrosi, ma soprattutto all’irreversibilità dell'arresto circolatorio encefalico, a causa del “fenomeno di non riflusso” (the no-reflow phe­nomenon): arriva un momento in cui, anche se si ristabilisce l’attività cardiaca, non si produce di nuovo flusso sanguigno encefalico per mancanza di permeabilità dello strato capillare encefalico. Finora, la medicina non è riuscita a superare il “fenomeno di non riflusso” (Cfr. A. Ames III - R.L. Wright – M. Kowada – J.M Thurston – G. Majno, Cerebral ischemia II. The no-reflow phenomenon, «American Journal of Pathology» 52 (1968), pp. 437-453).

[6] Cfr. Conference of Medical Royal Colleges and their Faculties in the United Kingdon, Diagnosis of brain death, «British Medical Journal» (1976) n. 2, pp. 1187-1188; Diagnosis of death, «British Medical Journal» (1979), n. 1, p. 3320.

[7] Cfr. D. Lamb, Il confine della vita, cit., pp. 85-91. Lamb è un convinto sostenitore della tesi assunta nell’Inghilterra.

[8] Aristotele, De anima, II, 1, 412 a 27 e b 5.

[9] Ibid., II, 2, 414 a 12.

[10] Cfr. P. Siwek, Psychologia Metaphysica, 5ª ed., PUG, Roma 1956, p. 539.

[11] Giovanni Paolo II, Discorso al 18º Congresso Internazionale della Società dei Trapianti, 29 agosto 2000, n. 5. Cfr. in senso analogo Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari, Carta degli Operatori Sanitari, Città del Vaticano 1995, n. 87.

[12] Cfr. per esempio S.J. Youngner, Defining death. A superficial and fragile consensus, «Archives of Neurology» 49 (1992) 570-572; P.A. Byrne – S.O. Reilly – P.M. Quay, Brain death: an opposing viewpoint, «JAMA» 242/18 (1979) 1985-1990.

[13] Cfr. per esempio D.A. Shewmon, Chronic “brain death”. Meta-analysis and conceptual consequences, «Neurology» 51/6 (1998) 1538-1545; T. Yoshioka – H. Sugimoto – M. Uenishi, et al., Prolonged hemodynamic maintenance by the combined administration of vasopressin and epinephrine in brain death: a clinical study, «Neurosurgery» 18/5 (1986) 565-567.

[14] Cfr. E.F.M. Wijdicks – J.L. Bernat, Chronic “brain death”: meta-analysis and conceptual consequences. To the Editor, «Neurology» 53/6 (1999) 1369-1372.

[15] Si tenga presente quanto è stato detto prima nella nota 5.