Rapporti tra il concetto filosofico e il concetto clinico di morte (1992)[1]

Angel Rodríguez Luño

 

Sommario: — I. Introduzione. — II Aspetti medici: 1. Morte clinica, morte biologica e morte in senso ontologico; 2. Modi diversi di concepire la morte dell'uomo; 3. Criteri per la determinazione della morte; 4. Metodi per stabilire la diagnosi di morte; 5. Lo, "stato vegetativo persistente". — III. Il punto di vista della filosofia speculativa: 1. Considerazioni generali di carattere metodologico; 2. Considerazioni specifiche. — IV. Conclusioni.

 

I. INTRODUZIONE

            In questi ultimi anni si è compiuto un notevole sforzo per adeguare il con­cetto di morte clinica ai più recenti sviluppi della scienza medica; e nel contesto di questi studi si sente parlare frequentemente di "morte cerebrale" o di "morte encefalica". Il concetto di morte e la sua determinazione ha importanti ripercus­sioni mediche, legali, sociali e religiose. È ovvio che l'argomento susciti l'interesse non solo dei medici, che desiderano sapere fino a quando continuare un determi­nato trattamento o quando poter disporre di un organo per un trapianto, ma anche dei filosofi e dei teologi. E quindi lodevole che si desideri studiare il proble­ma da un punto di vista davvero interdisciplinare. Questo punto di vista pone non poche difficoltà, giacché la terminologia medica e quella filosofica derivano da livelli di concettualizzazione molto diversi, per cui il dialogo tra medici e filosofi non risulta sempre facile.

            L'oggetto di queste riflessioni è spiegare quali sono le principali correnti di opinione nell'ambito medico intorno al concetto di morte — dal punto di vista sia teorico che clinico — e cercare di vedere quale ne sarebbe il significato o la trascri­zione nel linguaggio filosofico, con lo scopo di facilitare l'auspicabile dialogo inter­disciplinare. Non pretendiamo di fare nessun apporto di tipo medico, né di adden­trarci in questioni sommamente specialistiche, come per esempio i metodi per stabilire la diagnosi di morte. Non studieremo nemmeno le possibili applicazioni eti­che. In questa sede, ci proponiamo una più ridotta finalità di chiarificazione con­cettuale, propedeutica necessaria per un futuro studio interdisciplinare.

II. ASPETTI MEDICI

1. Morte clinica, morte biologica e morte in senso ontologico

            Non è molto difficile arrivare ad un accordo sul concetto ontologico di morte: essa consiste nella separazione dell'anima umana dal corpo. Si tratta di un concetto filosofico di grande importanza antropologica, esistenziale e religiosa, che difficilmente però servirà al medico per risolvere problemi pratici e, soprattut­to, problemi di fatto: la filosofia può dire che cosa succede — al livello più profon­do — quando qualcuno muore, ma non le compete determinare se un paziente sia o no morto. Il Magistero della Chiesa ha evitato di entrare in questa materia, avvertendo che tocca al medico dare una definizione chiara e precisa della morte e del momento della morte[2]. Invece, le considerazioni filosofiche sono importanti per delucidare le questioni originate da un determinato concetto filosofico di per­sona (p. es.: carattere e valore personale di certe forme o stadi della vita umana).

            Sul piano strettamente medico bisogna distinguere la debilitazione e mancan­za di coordinazione delle diverse funzioni (stato di coma), la cessazione di queste funzioni, soprattutto quella cardiorespiratoria (morte clinica) e l'alterazione e distru­zione di cellule e tessuti (morte biologica). La morte clinica è stata definita per molto tempo come la cessazione permanente del funzionamento dell'organismo (principal­mente della funzione cardiaca e respiratoria). La morte biologica è invece la cessa­zione totale dell'attività di tutte le cellule dei tessuti e organi del corpo, cessazione che si produce gradualmente e che è seguita dalla decomposizione o putrefazione.

            Il concetto di morte biologica può essere utilizzato anche in esclusivo rap­porto all'organo o agli organi che si vogliano adoperare per un trapianto.

2. Modi diversi di concepire la morte dell'uomo

            Abbiamo detto che tradizionalmente la morte dell'essere umano era identi­ficata con l'interruzione della respirazione e della circolazione sanguigna dovuta ad un arresto cardiaco. I passi avanti della medicina, e in particolare delle tecniche di rianimazione, hanno costretto a relativizzare questa concezione. In effetti, se grazie a diverse tecniche può tornare a vivere un paziente che ha subito un arresto cardio-respiratorio[3], è chiaro che questo arresto non può assolutamente identificarsi con la morte. Come può essere definita allora la morte di una persona? Segnaleremo tre concezioni diverse.

            a) Alcuni autori intendono la morte come un processo e non come un fatto o evento, basandosi sul fatto che in tutti i tessuti dell'organismo avvengono una serie di cambiamenti degenerativi e distruttivi normalmente conseguenti, ma a volte previ, alla irreversibile cessazione della respirazione spontanea e della circo­lazione sanguigna; per esempio: la necrosi di cellule del cervello e di altri organi vitali, il raffreddamento, il rigor mortis, la lividezza cadaverica, ecc. Questo tipo di processi si prolungano per anni, a volte moltissimi, finché lo scheletro si disintegra. L'inizio di questo processo potrebbe darsi nella morte di alcuni organi già durante la vita[4]. In ogni caso i sostenitori di questa concezione considerano che fissare in un punto questo processo graduale, come momento della morte, sarebbe arbitra­rio. Questo punto di vista guarda più alla descrizione di fatti biologici (morte bio­logica) che alla morte clinica, e risulta impraticabile dal punto di vista medico (fino a quando continuare le terapie?), legale (quando è esecutivo un testamen­to?), sociale e religioso.

            b) Altri autori definiscono la morte come la perdita irreparabile di ciò che è essenzialmente significativo della natura umana[5]. A volte non spiegano che cosa sia "essenzialmente significativo della natura umana", ma di solito affermano che si tratta della capacità di esercitare conoscenza e volontà o di stabilire relazioni con l'ambiente, ecc. Quando parlano dell’essenzialmente significativo della natura umana", entrano in un terreno di competenza della filosofía, come vedremo più avanti. Questa tesi sembra contraddire il senso morale comune e la prassi medica più abituale: non si è soliti dubitare che siano vivi i pazienti comatosi che, per aver sofferto danni alla corteccia cerebrale, sono incapaci di atti coscienti, ma che man­tengono spontaneamente (senza ventilatore meccanico) le funzioni vegetative; fu famoso il caso di Karen Ann Quinlan.

            c) Bernat e i suoi collaboratori ritengono che la morte è un fatto che non deve essere confuso né con l'agonia che la precede, né con il conseguente processo dì disintegrazione di cellule e tessuti (la morte biologica)[6]. Questi autori definiscono la morte come la cessazione permanente del funzionamento dell'organismo umano come un tutto. Questo non significa che la morte sia la cessazione della somma delle funzioni di tutti gli organi. La morte è l'interruzione permanente delle complesse relazioni funzionali tra i diversi organi. Non è necessario che l'organismo umano sia completo — infatti può mancare una gamba, un braccio, un rene, ecc. — per continuare a funzionare spontaneamente come un tutto.

            Il "funzionamento dell'organismo come un tutto" significa il mantenimento delle relazioni spontanee e innate degli organi presenti nel corpo. Più concreta­mente, devono sussistere le attività spontanee effettuate dall'integrazione di tutti o dalla maggioranza dei sottosistemi (p. es.: il controllo neuroendocrino) e alcune risposte limitate all'ambiente (cambiamenti di temperatura e reazioni alla luce e al suono). Tuttavia l'integrazione di tutti i sottosistemi non è necessaria poiché alcu­ni di essi possono essere sostituiti (pace-maker, ecc.), senza che perciò venga meno il funzionamento dell'organismo nel suo insieme.

            D'altra parte, una volta cessata l'attività dell'organismo nel suo insieme, alcuni organi possono continuare a funzionare individualmente per un certo tempo. Questo non succede con la respirazione spontanea, che cessa contempora­neamente all'attività dell'organismo nel suo insieme; succede invece con la circola­zione sanguigna, poiché grazie al respiratore artificiale essa può persistere per un certo tempo dopo che l'organismo ha smesso di funzionare come un tutto.

            La regolazione della temperatura è un esempio importante di attività dell'organismo nel suo insieme. Il controllo di questo processo è localizzato nell'ipotalamo ed è importante per il mantenimento di tutti i processi cellulari. La coscienza costituisce una sufficiente evidenza dell'attività del tutto organico, ma l'assenza (persino irreversibile) di coscienza non basta ad assicurare che l'organi­smo umano abbia smesso di funzionare come un tutto.

3. Criteri per la determinazione della morte. Il problema della "morte encefalica" e della "morte cerebrale"

            La funzione di questi criteri è permettere di riconoscere lo stato di morte, quale ne sia la concezione, nei casi concreti. Questi criteri devono soddisfare le seguenti condizioni:

            a) Prima di tutto che non diano luogo a falsi positivi, cioè che non permetta­no di considerare morto chi in realtà è vivo.

            b) Che non producano falsi negativi (considerare vivo chi è morto), anche se questo fatto è meno importante del precedente.

            c) Che non implichino un ritardo eccessivo nella determinazione della morte.

            d) Che siano adattabili a diverse situazioni cliniche e che siano chiari e suscettibili di verifica.

            Attualmente si è soliti utilizzare un doppio criterio:

            i) la perdita della funzione cardio-polmonare, che determina la morte dei pazienti non sottoposti a rianimazione;

            ii) ciò che con terminologia non troppo precisa (che in seguito chiariremo) si chiama "morte cerebrale", che determina la morte dei pazienti sottoposti a ria­nimazione.

            Intorno al primo criterio non sorgono speciali problemi concettuali. Intorno al secondo, sì. Esiste un primo problema linguistico, di scarsa importanza, e un secondo problema di fondo.

            Il problema linguistico si riferisce all'ambiguità della parola "cervello". Alcuni autori designano con essa la parte superiore degli organi del sistema nervoso contenuti nella cavità del cranio; altri designano con questa parola la totalità di que­sti organi, totalità alla quale il primo gruppo di autori si riferisce invece con la parola "encefalo". Stando così le cose, quando si sente parlare di "morte cerebrale" si origi­na una certa confusione, perché non si sa se si sta parlando della cessazione irrever­sibile delle funzioni della corteccia cerebrale o dell'intero encefalo (per illustrare questo concetto, il secondo gruppo parlerebbe di "morte cerebrale totale").

            Per introdurci nel problema di fondo, chiarendo contemporaneamente la terminologia che useremo, bisogna tener conto che considereremo il cervello come una parte dell'encefalo. Concretamente, il cervello è la parte del Sistema Nervoso Centrale contenuta nella sezione sopratentoriale della cavità cranica, compren­dente il "telencefalo" (del quale fanno parte i due emisferi cerebrali) e il "dience­falo". L'encefalo, invece, si estende fino al forame occipitale e comprende, oltre le strutture cerebrali citate, il "mesencefalo", il "ponte", e il "bulbo" che tutti insie­me si chiamano "tronco encefalico" (il secondo gruppo di cui parlavamo prima, lo chiama "tronco cerebrale"). Nel cervello propriamente detto risiede la capacità di integrazione con l'ambiente: sensibilità, mobilità, coscienza (nel senso in cui le funzioni superiori dipendono da una struttura organica). Nel "tronco encefalico" sono situati i centri di controllo delle funzioni di base, come la respirazione e il battito cardiaco e anche alcune strutture la cui funzione è l'attivazione del cervel­lo: il sistema reticolare attivatore ascendente (ARAS). Si tenga presente, ciò nonostante, che alcuni studi realizzati su afasici inducono a pensare che nell'idea­zione intervengono alcuni centri del tronco encefalico[7], e che altre ricerche sem­brano indicare che nella coscienza interviene una parte abbastanza profonda dell'encefalo (diversa dalla corteccia).

            Il problema di fondo consiste nel fatto che la "morte cerebrale" è intesa in tre modi diversi[8]:

            1) Prima tesi: la cessazione irreversibile del funzionamento del solo cervello o corteccia cerebrale (funzioni superiori) equivale alla morte dell'essere umano. Questa tesi è in accordo con la concezione della morte come perdita irreparabile di ciò che è essenzialmente significativo della natura umana.

            2) Seconda tesi: l'essere umano è morto solo quando si è avuta la cessazione irreversibile del funzionamento dell'intero encefalo (secondo altri autori "morte cerebrale totale"). Questa seconda tesi è in accordo con la concezione della morte che abbiamo enunciato in 2 c) (Bernat e collaboratori). Secondo i suoi sostenitori, perché si possa parlare della cessazione del funzionamento dell'organismo nel suo insieme, c'è bisogno della perdita totale e irreversibile dell'encefalo completo e non della sola corteccia cerebrale o del solo tronco encefalico.

            3) Terza tesi: l'essere umano è morto quando si è prodotta la cessazione irreversibile del funzionamento del tronco encefalico (altri autori parlano di "tron­co cerebrale"). Sembra che questa tesi potrebbe essere anch'essa in accordo con la concezione della morte di Bernat e dei suoi collaboratori, perché i suoi sostenitori considerano che il funzionamento dell'organismo nel suo insieme cessa definitiva­mente una volta che è cessata l'attività coordinatrice del tronco encefalico. In ogni caso, queste ultime due tesi sono abbastanza diverse dal punto di vista della dia­gnosi della morte clinica[9].

            L'Associazione Medica Mondiale (Dichiarazione di Sidney, 1968, riveduta nella XXXV Assemblea, tenuta a Venezia nel 1983), la Commissione convocata dal Presidente degli Stati Uniti d'America e la Pontificia Accademia delle Scienze (ottobre 1985)[10] presero parte alla discussione del problema che stiamo analizzan­do, pronunciandosi a favore della seconda tesi: per parlare di morte, bisogna assi­curarsi dell'irreversibile sospensione delle funzioni dell'intero encefalo e non solo del cervello o corteccia cerebrale. La Commissione convocata dal Presidente degli Stati Uniti lo esprime nel modo seguente:

            Un individuo che ha sofferto 1) la cessazione irreversibile delle funzioni circolatorie e respiratorie o, 2) la cessazione irreversibile delle funzioni del completo encefalo, è morto.

            Come abbiamo detto, il criterio 1) si applica ai pazienti non sottoposti a ria­nimazione. Il criterio 2) a quelli che sono sottoposti ad essa. Si tende a considerare il criterio 2) come il vero criterio della morte, giacché la cessazione definitiva della funzione cardiaca e respiratoria conduce rapidamente alla morte encefalica.

            Dal punto di vista anatomo-patologico, la perdita irreversibile del funziona­mento del completo encefalo ("morte encefalica") è stata considerata come una necrosi asettica, colliquativa[11], dovuta all'arresto della circolazione encefalica che può originarsi per l'aumento anormale della pressione intercraneale o per un defi­cit di flusso (arresto cardiaco, shock). Ma la diagnosi di morte encefalica non fa attenzione al fenomeno di necrosi, ma soprattutto all'irreversibilità dell'arresto circolatorio encefalico, a causa del "fenomeno di non riflusso" (the no-reflow phe­nomenon): arriva un momento in cui, anche se si ristabilisce l'attività cardiaca, non si produce di nuovo flusso sanguigno encefalico per mancanza di permeabilità dello strato capillare encefalico. Finora, la medicina non è riuscita a superare il "fenomeno di non riflusso"[12].

            Le moderne descrizioni della morte encefalica (del completo encefalo) ini­ziarono con i lavori di Mollaret e Goulon[13]. Osservarono un paziente con danno encefalico massivo, mantenuto in vita con un respiratore meccanico e rilevarono una condizione di completa mancanza di risposta, mancanza di respirazione spon­tanea, flaccidità, regolazione termica alterata, assenza di riflessi mesencefalici e collasso circolatorio progressivo. Definirono questa condizione coma dépassé, cioè, uno stato oltre il coma, ma non si pronunciarono sul fatto se l'individuo in coma dépassé sia morto o no (sarebbe importante per i trapianti). In seguito si è arrivati ad un accordo abbastanza generale per il quale l'individuo in coma dépas­sé è morto, poiché questo coma presuppone la morte del completo encefalo (diverso è, e più complicato, determinare quali sono i test che devono essere utiliz­zati per assicurarsi in ogni caso concreto che il completo encefalo sia morto).

            In Gran Bretagna, al contrario, la Conferenza dei Reali Collegi Medici ha concentrato la sua attenzione sul criterio basato sulla cessazione irreversibile del funzionamento del tronco encefalico[14]. I sostenitori di questo criterio segnalano che senza il funzionamento del sistema reticolare attivatore ascendente non solo non è possibile la coscienza, ma nemmeno la respirazione e l'integrazione delle altre funzioni vegetative, per cui, una volta "morto" il sistema reticolare, il cuore e la corteccia cerebrale verranno privati dell'ossigeno e cesseranno le loro funzioni, arrivando fino alla morte del completo encefalo. La cessazione delle funzioni del tronco encefalico è considerata come il "nucleo fisiologico" della morte encefalica e come la determinante della cessazione del funzionamento dell'encefalo nel suo insieme. La Commissione Presidenziale degli Stati Uniti sostiene che il criterio inglese offre più una prognosi che una diagnosi, cioè considera un momento in cui il processo che conduce alla morte è inarrestabile, non la morte avvenuta. Il criterio della Commissione Presidenziale si basa sulla constatazione della "morte" dell'intero encefalo; il criterio inglese sulla constatazione della cessazione del fun­zionamento dell'encefalo nel suo insieme giacché questo funzionamento integrato non può aversi se è morto il tronco encefalico. I sostenitori di quest'ultima opinio­ne considerano il criterio della Commissione Presidenziale come un eccesso di cau­tela. Al contrario, quelli che non la accettano potrebbero dire, per esempio, che è difficile considerare già morta una persona con il tronco encefalico irreversibilmen­te danneggiato, la cui respirazione viene mantenuta artificialmente, nella cui cor­teccia cerebrale l'elettroencefalogramma registra ancora una qualche attività[15].

4. Metodi per stabilire la diagnosi di morte

            Sono le prove o test per verificare se in un determinato paziente si verifica­no i criteri sopra citati. Si tratta di un tema eccessivamente tecnico, sul quale non ci dilungheremo. Sono state fatte diverse proposte, ma non tutte hanno raggiunto il 100% di sicurezza. Avvertiamo che, come si sa, esistono tre casi nei quali la dia­gnosi è specialmente difficile, per la quale bisogna impiegare schemi di diagnosi più complicati e in ogni caso estrema cautela, giacché non sono definitivi i parame­tri e i sintomi che in altre situazioni significano irreversibilità. Questi casi sono: 1) determinazione della morte encefalica dei bambini; 2) diagnosi in casi di ipoter­mia; 3) diagnosi in casi di intossicazione causata da droghe sedative e anestetiche (barbiturici, benzodiazepine, ecc.). La legislazione statale di ogni paese di solito fissa alcuni requisiti per la certificazione della morte, soprattutto quando si devo­no fare trapianti di organi.

5. Lo "stato vegetativo persistente"

            Un esempio delle ripercussioni pratiche dell'adesione alla prima, alla secon­da o alla terza tesi, può essere lo "stato vegetativo persistente" o "sindrome apali­ca". Questo stato implica la "morte della corteccia cerebrale", ma non la "morte encefalica" (o "morte cerebrale totale"). Il paziente con sindrome apalica sarà considerato un uomo morto per i sostenitori della prima opinione, e vivo per quel­li della seconda e della terza[16].

            Lo stato vegetativo persistente è un'alterazione causata da un danno strut­turale della corteccia cerebrale, che origina un grave mutamento del funzionamen­to coordinato di entrambi gli emisferi cerebrali e del cervello medio, mentre rima­ne una attività del tronco encefalico, sufficiente per sostenere le funzioni vegetati­ve spontanee. È una situazione clinica differente dal coma dépassé.

            Il quadro clinico della sindrome apalica si caratterizza per l'assenza perma­nente di coscienza[17] e per la permanenza delle funzioni vegetative e dei riflessi. Se si somministra al paziente qualche alimento, il sistema digestivo funziona, i reni producono urina, ecc. Il cuore e i polmoni funzionano normalmente (non c'è biso­gno di respirazione artificiale). Esistono i riflessi spinali e quelli del tronco encefa­lico: fotomotori, di deglutizione, oculo-auditivi, movimenti dell'occhio, movimenti di respirazione, ecc. Se si somministrano loro le dovute cure, questi pazienti posso­no rimanere in vita (senza bisogno di assistenza respiratoria) per molto tempo. Uno di essi è vissuto 37 anni in stato vegetativo persistente.

            La mancanza di coscienza è permanente. Anche se l'esperienza su questo tipo di pazienti è ancora limitata, sembra che si possa sapere con sicurezza in quali casi la riparazione dei danni neurologici non sia possibile. Ciò nonostante, l'espe­rienza dimostra che è necessaria una buona dose di prudenza e un'osservazione prolungata prima di diagnosticare uno stato vegetativo persistente, specialmente quando si tratta di danni di origine ipossica in pazienti giovani.

            Per il senso comune e per la sensibilità morale ordinaria, è abbastanza diffi­cile accettare che un essere umano in queste condizioni sia da considerare morto.

            Oltre lo stato vegetativo persistente, ci sono altri casi di mancanza di coscienza più o meno prolungata:

            a) Pazienti che non rispondono dopo un trauma encefalico-craneale o di ipossìa e che non recuperano una sufficiente funzione del tronco cerebrale in modo da stabilirsi in uno stato vegetativo persistente prima di morire. Di solito muoiono in poche settimane. Un esempio è quello di coloro che, dopo un arresto cardiaco, rispondono positivamente alla rianimazione cardio-polmonare, ma non arrivano a recuperare la coscienza né a ristabilizzare le funzioni vegetative.

            b) Pazienti che si trovano nello stadio finale di una malattia degenerativa neurologica del sistema nervoso centrale. Per esempio, morbo di Jacob-Creutzfeldt o morbo di Alzheimer.

            c) Neoplasia o massa vascolare intrattabile del sistema nervoso centrale.

            d) Ipoplasia congenita del sistema nervoso centrale (anencefalici). Anche questi casi, forse con diverse sfumature e in diverso grado, saranno visti in manie­ra diversa dai sostenitori della prima tesi (equivalenza di "morte della corteccia cerebrale" e morte dell'uomo), da quelli che seguono la seconda (equivalenza di "morte encefalica" e morte dell'uomo) e da quelli che seguono la terza (equiva­lenza di "morte del tronco encefalico" e morte dell'uomo). Comunque sia, biso­gnerebbe vedere più in dettaglio qual è la traduzione etico-medica e deontologica di questo disaccordo teorico.

III. IL PUNTO DI VISTA DELLA FILOSOFIA SPECULATIVA

1. Considerazioni generali di carattere metodologico

            Parlando di "filosofia speculativa" ci riferiamo alla metafisica, alla psicolo­gia razionale e alla filosofia della natura, che distinguiamo dall'etica (filosofia pra­tica). E conveniente fare questa distinzione perché, per lo meno in linea di princi­pio, non si può escludere che due concezioni differenti sul piano speculativo non lo siano anche sul piano etico, cioè, non si può escludere che entrambe le conce­zioni sbocchino in un'identica prassi medica e deontologica. Naturalmente, può anche succedere che diano luogo ad una prassi diversa o contraria.

            Se fosse legittimo fare una traduzione diretta delle tre tesi mediche citate, dal piano clinico al piano ontologico, otterremmo più o meno il risultato seguente. Chi sostiene che l'individuo con il cervello (una parte dell'encefalo) irreversibilmente alte­rato è realmente morto, dovrebbe dire anche che l'anima umana di questo individuo si è separata dal corpo. Sorge allora il problema di spiegare il funzionamento dell'organi­smo nel suo insieme sul piano vegetativo. Una possibile risposta al problema consiste­rebbe nel dire che il funzionamento di questo organismo è sostenuto e unificato da un principio vitale (anima) vegetativo. Si sosterrebbe così una teoria della morte o della "disumanizzazione" progressiva, che bisognerebbe presentare in modo analogo, anche se un po' forzatamente, alla teoria tomista della generazione dell'essere umano. La tesi filosofica dell'unità della forma sostanziale non verrebbe necessariamente negata (come nemmeno viene negata dall`embriologia filosofica" di San Tommaso); si rico­noscerebbe, in effetti, che mentre l'uomo vive, la sua anima è unica. Quando l'uomo muore, avviene un cambiamento sostanziale e allora o sorge un nuovo principio vitale vegetativo o si rompe l'unità dell'anima umana e rimane (ora come forma sostanziale) l'anima vegetativa che era virtualmente presente in quella razionale[18].

            I sostenitori della seconda o della terza tesi (necessità della morte del comple­to encefalo o del tronco encefalico perché l'individuo sia realmente morto) potrebbe­ro dire che l'anima umana è nel corpo, ma che, a causa dell'alterazione della cortec­cia cerebrale, può solo esercitare le operazioni vegetative e alcune di tipo sensitivo.

            Bisogna tenere presente che nella letteratura medica non è molto normale tro­vare questo tipo di "traduzioni" filosofiche di concetti medici. Ciononostante, in parte per la necessità di stabilire un dialogo interdisciplinare, in alcune aree culturali e da alcuni anni cominciano ad essere più frequenti, sia da parte di medici, sia da parte di filosofi o teologi. A mio giudizio, tra alcune di queste elaborazioni filosofiche e la for­mazione filosofica, etica e teologica auspicabile e necessaria per gli scienziati, esiste una sottile differenza già a livello metodologico, la natura della quale non è facile da determinare, ma che non cessa di suscitare perplessità. Segnalerò alcuni aspetti.

            Tanto la medicina quanto la filosofia possiedono dimensioni speculative e dimensioni pratiche (la dimensione prevalentemente pratica della filosofia è l'etica). Quando si intavola un dialogo tra medicina e filosofia in quanto scienze pratiche, questo dialogo trova facilmente un terreno comune e, nonostante le diffi­coltà, non pone problemi metodologici di principio. Il comportamento del medico ha una dimensione tecnica: un intervento chirurgico di aborto può essere ottimo dal punto di vista della tecnica operatoria, o può essere disastroso, se provoca altri danni oltre quelli tristemente inevitabili, per imperizia, mancanza di asetticità, inettitudine dell'anestesista, ecc. Ma il comportamento medico, con la sua dimen­sione tecnica, è contemporaneamente un comportamento intrinsecamente morale e pertanto l'etica non esula dal suo ambito quando si riferisce ad esso.

            Inoltre esiste, ed è bene e necessario che esista, una connessione tra medicina e filosofia in quanto ambedue sono anche scienze speculative, perché sono comple­mentari nella conoscenza della realtà umana. Tale connessione è metodologicamen­te più complicata e deve essere stabilita con molta cura. In quanto scienze teoriche, la medicina e la filosofia possiedono una problematica e un livello epistemologico e di concettualizzazione molto differente, anche se hanno tra di loro innegabili punti di contatto. Ma bisogna sapere quali sono questi punti di contatto e in che modo si stabiliscono, per cui, oltre alla conoscenza della filosofia e della medicina, è necessa­ria una riflessione metodologica specifica sui loro reciproci rapporti. Osserva Millán Puelles che l'utilizzazione che il filosofo deve fare dei dati scientifici, richiede «una considerevole dose di cautela, tanto in ciò che concerne il suo significato, quanto nel modo stesso di metterlo in pratica»[19]. E lo stesso avvertimento vale per il medico.

            Se il differente statuto epistemologico della filosofia e della medicina non è tenuto sufficientemente in conto, si possono originare problemi tanto per l'una quanto per l'altra: ingerenza nelle competenze altrui, ragionamenti impropri, impiego di un linguaggio tecnico (nel nostro problema il linguaggio dell'ilemorfi­smo) formalmente esatto ma sostanzialmente inadeguato al senso e ai limiti di questo linguaggio, ecc. Per esempio: una cosa è dire che quando si interrompe la funzione cardio-respiratoria l'individuo è clinicamente morto (come si diceva in modo assoluto nel secolo scorso), un'altra è dire che nel momento in cui si inter­rompe questa funzione, l'anima si separa dal corpo. Quest'ultima proposizione mescola concetti della medicina e concetti della filosofia, per cui finisce per esu­lare tanto da una scienza quanto dall'altra. Il filosofo deve limitarsi a dire che la morte dell'uomo è, al livello esplicativo più profondo, la separazione dell'anima dal corpo, ma l'equiparazione di un determinato quadro clinico con la morte è un tema medico che ha i vantaggi e i limiti propri delle verità mediche. Il medi­co, da parte sua, deve limitarsi a dire che secondo la scienza medica attuale que­sto paziente è clinicamente morto, però esula dalla sua competenza stabilire equivalenze assolute e temporalmente determinate tra certi quadri clinici e "movimenti" dell'anima. Il concetto di anima, e più in generale l'ilemorfismo, esprime la struttura metafisica che un ente deve avere perché possa essere pen­sato senza contraddizione come ente mobile o come ente vivo (la vita è un tipo di movimento: automozione e attività immanente), ma non risponde alla neces­sità di interpretare quadri clinici, né a quella di controllare il "movimento" dell'anima secondo il tempo ("ora c'è l'anima", "si è separata da 10 minuti", o "si è separata 15 minuti fa, quando il cervello ha smesso di ricevere sangue", ecc.). La genesi filosofica e il senso stesso dei concetti ilemorfisti non ammetto­no questo uso.

            Questo non vuol dire — come abbiamo già avvertito — che medicina e filo­sofia non possano e debbano collaborare, anche aiutandosi reciprocamente a cor­reggere errori. Questo succede ad esempio, quando un'idea filosofica dipende essenzialmente da un errore scientifico (e questo sarebbe secondo alcuni il caso dell"`embriologia" tomista), o quando una concezione medica dipende essenzial­mente da un errore filosofico (per esempio, da un concetto errato di persona). Ogni scienza apporta all'altra i propri dati certi, ma senza cercare di risolvere ciò che esula dal proprio metodo. Per dirlo icasticamente, non bisogna cercare l'anima spirituale nel laboratorio di anatomia, come nemmeno ricorrere alla Sacra Scrittura o alle opere di Aristotele per imparare biochimica.

2. Considerazioni specifiche

            Il filosofo può dire, senza uscire dal suo ambito, che dal fatto che un indivi­duo della specie umana rimanga permanentemente e irreversibilmente impossibi­litato ad esercitare le facoltà razionali, non è legittimo concludere che questo indi­viduo non è una persona umana o che non possiede l'anima razionale. Precisiamo: posto che l'anima umana è uno spirito essenzialmente ordinato ad informare un corpo[20], bisogna dire che una materia che non potesse ricevere la configurazione propria dell'organismo umano non potrebbe essere informata dall'anima intelletti­va, ma non si può concludere che l'anima umana debba abbandonare quel corpo, che con certezza prima stava informando e vivificando, a causa di una lesione organica che impedisce l'esercizio di alcune operazioni, anche se si tratti delle più importanti.

            Questo è anche ciò che sembra pensare San Tommaso d'Aquino: «quibu­sdam corporeis organis laesis, non potest anima directe nec se nec aliud intelligere, ut quando laeditur cerebrum»[21]. Nei confronti del danno cerebrale, San Tommaso non allude neppure a un cambio sostanziale, si limita a costatare che l'uomo non può esercitare l'atto conoscitivo directe. Non so perché scriva questo avverbio, ma sembra che san Tommaso voglia porre, per prudenza, un limite alla sua afferma­zione. La facoltà intellettuale non è organica[22], anche se ha presupposti organici (soprattutto da parte della sensibilità interna) ed è molto difficile assicurare che succede con l'anima di un uomo in coma o in stato vegetativo persistente. In realtà, sulla vita degli esseri spirituali, considerata in se stessa (non in quanto si esprime in qualche modo attraverso il sensibile), sappiamo ben poco ed è difficile fare affermazioni tassative. È risaputo, d'altra parte, che pazienti che durante lo stato di coma non hanno risposto a nessun tipo di stimolo, hanno affermato, dopo essere usciti dal coma, che avevano sentito quello che i medici dicevano mentre essi stavano in coma.

            Vediamo ora perché non consideriamo legittima l'illazione alla quale prima abbiamo fatto riferimento. L'anima viene definita, già da Aristotele, come l'atto primo di un corpo naturale organizzato[23] o come quello per cui primariamente viviamo, cambiamo di posto, e comprendiamo[24]. I termini "primo" e "primaria­mente" alludono alla distinzione tra l'anima e le potenze operative, essenziale nel tomismo, perché risponde alla stessa condizione metafisica di creatura (non iden­tità tra essere e agire, ecc.). L'anima è atto primo, le operazioni vitali sono atto secondo. Questo vuol dire che quando si realizza un'operazione vitale, c'è certa­mente un passaggio dalla potenza all'atto, ma ciò che passa dalla potenza all'atto non è l'anima, ma la potenza operativa. L'anima non è in atto per le operazioni, né esse attualizzano l'anima, né l'anima è atto in quanto opera. L'anima umana non è il conoscere, né è il principio che è attualizzato dall'operazione conoscitiva; il conoscere attualizza l'intelligenza e il volere la volontà. L'impossibilità di conoscere implica in ogni caso l'impossibilità che l'intelligenza passi all'atto, ma non toglie all'anima nulla della sua attualità essenziale o prima, perché l'atto dell'anima non è l'operazione o l'atto secondo.

            L'anima, e anche la natura umana (della quale l'anima è la parte formale), è il principio radicale e mediato delle operazioni e manifestazioni fenomenologica­mente caratteristiche dell'essere razionale (conoscere, amare, libertà, ecc.), dei suoi presupposti organici e delle sue espressioni somatiche. I principi immediati di queste operazioni e manifestazioni sono le facoltà, che vengono ad essere come ramificazioni o canali operativi del principio radicale unico. La natura — e l'anima — non si confonde con la somma delle facoltà (la vita in atto primo è qualcosa di più che la somma delle operazioni) né con la possibilità reale di esercitarle, perché .è la loro radice ontologica. La debolezza o assenza, temporale o perpetua, di una o di varie facoltà (essere cieco, zoppo, oligofrenico, essere in coma, ecc.) non ha come risultato che si smette di possedere la natura razionale[25] e pertanto non dà luogo ad un calo di personalità in senso ontologico (non si è meno persona), anche se si tratti di una persona gravemente menomata nelle sue facoltà. L'anima, la natura razionale e la personalità sono dati ontologici e non categorie fenomenologiche, biologiche, psicologiche o mediche, così come nemmeno sono categorie di razza, di livello sociale o di credo ideologico o religioso.

            Quando scompare la vita in atto primo — della quale l'anima è principio primo — possiamo dire che l'anima si è separata dal corpo. L'impossibilità di eser­citare alcune operazioni (atti secondi) non permette di affermare la separazione dell'anima. L'anima deve porsi in relazione con la vita (in atto primo), per cui solo una lesione organica che causi il fine della vita dell'organismo tutto, e non solo la fine delle operazioni di una facoltà, causa anche la separazione dell'anima. L'anima non è una determinata strutturazione del corpo ma ne è la causa e fa sì che questo corpo organizzato funzioni come un tutto. È proprio dell'anima anima­re e unificare l'insieme, fare da principio unificatore o sistematore delle parti di esso. Se la presenza dell'anima causa e si manifesta nel funzionamento dell'organi­smo come un tutto, bisogna dire anche che la manifestazione fenomenologica più caratteristica della separazione dell'anima sarebbe la cessazione del funzionamen­to dell'organismo come totalità unificata.

            Quando l'anima umana si separa dal corpo, questo non si disintegra in un istante, ma cessa di comportarsi come un tutto. Non sembra ragionevole parlare di forma sostanziale di cadavere[26], come se il cadavere avesse l'unità propria di una sostanza vivente. Il cadavere, come tale, è morto, anche se in esso possa esserci ancora vita in senso biologico, ma non è vita di animale superiore, ma vita di livel­lo inferiore (di cellule, di raggruppamenti di cellule o tessuti), che si regola secon­do le leggi proprie di questo tipo di vita. Non c'è niente di strano che se un organo o una cellula riceve ossigeno e alimentazione, quest'organo o questa cellula riman­ga preservato dalla putrefazione per qualche tempo, poco o molto. È una questio­ne di biologia elementare (citologia) o forse di biochimica, ma non di zoologia o di antropologia. Cioè, le strutture organiche formate e vivificate in un altro tempo dall'anima umana possono conservare per qualche tempo, se si danno le condizio­ni adeguate, la loro consistenza biologica e biochimica propria, d'accordo con le leggi generali della biologia inferiore e della biochimica.

            È anche pertinente qualche considerazione sull'unità della persona, perché la concezione della morte come perdita irreparabile di ciò che è essenzialmente significativo della natura umana, che abbiamo citato sopra, identifica in modo ina­deguato persona e razionalità. La persona è un individuo di "natura razionale" e non "ragione più natura", né una ragione che convive o coesiste con la natura. È persona l'individuo la cui essenza specifica (per la quale è, è corpo, possiede sensi­bilità e razionalità) è di indole razionale. L'unione sostanziale di anima e corpo significa che lo spirito (né tanto meno l'operazione spirituale) non è l'unico ele­mento essenzialmente significativo dell'uomo. Fa parte dell'essenza della persona umana anche la materia, che è strutturata come corpo umano per l'anima raziona­le. Essa, nel configurare la materia come corpo umano, le comunica l'atto di essere personale che è proprio e inseparabile dello spirito. Anche se la sussistenza dell'anima umana non è condizionata alla sua unione con il corpo e la capacità operativa dello spirito non si esaurisce nell'attività di informazione del corpo e nelle operazioni realizzate attraverso di esso (l'uomo non è solo corpo), il corpo di un uomo vivo è una realtà veramente personale, che esiste in virtù dell'atto di essere proprio dell'anima umana, e non vedo come un corpo umano che funziona come un tutto potrebbe convertirsi in un animale superiore. La tesi dell'unione sostanziale dell'anima e del corpo obbliga a pensare che la forma sostanziale di un corpo umano vivo come un tutto unificato è l'anima umana e solo essa.

IV. CONCLUSIONI

            Se il modo in cui abbiamo rapportato le considerazioni mediche con quelle filosofiche è corretto, il concetto di morte come perdita irreparabile di ciò che è essenzialmente significativo della natura umana e il criterio clinico conseguente (cessazione irreversibile delle funzioni del solo cervello), ci sembra incompatibile con la concezione filosofica che a nostro giudizio meglio si adegua alla realtà dell'essere umano. Il concetto di morte come la cessazione permanente del funzio­namento dell'organismo umano come un tutto ci sembra invece adeguato dal punto di vista dei suoi presupposti o implicazioni filosofiche. Resta fuori dall'oggetto e dalle possibilità di queste pagine esprimere un giudizio sul valore dei due criteri clinici per la diagnosi della morte che in linea di principio potrebbe­ro essere congrui con questo secondo concetto di morte (morte del completo ence­falo e morte del solo tronco cerebrale), anche se il primo di essi sembra offrire maggiori garanzie al momento di diagnosticare la morte avvenuta. In ogni caso, si tratta di un problema il cui studio esigerebbe considerazioni e impostazioni che qui non abbiamo dato.

            Comunque, la considerazione filosofica che può gettare qualche luce sulle teorie mediche attualmente in gioco, non è la semplice idea di morte come separazione dell'anima dal corpo, che risulta irrilevante dal punto di vista clinico, ma il concetto di persona umana; concretamente, la distinzione tra natura, facoltà e operazioni (vita in atto primo e in atto secondo) e il modo di concepire l'unità della persona umana (unione sostanziale di anima e materia; natura umana come totalità unificata di corpo e spirito), che impedisce di identificare la personalità umana con la sola possibilità di esercitare le funzioni razionali. La ragione è che la concettualizzazione ilemorfista non risponde alla necessità di interpretare quadri clinici, né a quella di controllare empiricamente la presenza o l'assenza dell'anima, ma a quella di determinare la struttura che l'ente mobile, e in particolare l'ente vivo, deve avere perché possa essere pensato senza contraddizione. La struttura della persona umana è il punto di vista che può far luce sul concetto di morte.

Abstract: In the last years, medical science has undertaken a significant effort to reconcile the clinical concept of death with recent medical developments. Knowledge of the principal medical theories related to the concept of death, and the understan­ding of the significance of the transcription of this significance into philosophical language, permit one to identify, on the one hand, the methodological criteria which facilitate the interdisciplinary work on this important subject, and on the other, the substantial criteria for critical discernment.



[1] Pubblicato in «Acta Philosophica» I/1 (1992), pp. 54-68.

[2] Cfr. Pio XII, Discorso del 24-XI-57.

[3] Già nel 1947 si ottenne la sfibrillazione elettrica di un paziente che era stato 70 minuti in fibrillazione ventricolare, cioè, con una contrazione muscolare minima e disordinata del cuore. Da allora le tecni­che di rianimazione sono progredite molto.

[4] Cfr. MORRISON, R.S., Death: process or event?, «Science» CLXXIII (1971), pp. 694-698.

[5]Cfr. VEATCH, R., Death, dying and the biological revolution: Our last quest for responsibility, Yale University Press, New Haven 1976.

[6] Cfr. BERNAT, J., CULVER, Ch., GERT, B., On the definition and criterion of death, «Annals of Internal Medicine» XCIV (1981), pp. 389-394.

[7] Cfr. PENFIELD, W., ROBERTS, L., Langage et mécanismes cérébraux, PUF, Paris 1963, pp. 243 e seg. (l'edizione originale è in inglese).

[8] Cfr. MAGOUN, H.V., Le cerveau éveillé, PUF, Paris 1960.

[9] Cfr. LAMB, D., Il confine della vita, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 85-91. Lamb è un convinto sostenito­re della terza tesi

[10] Cfr. PRESIDENT'S COMMISSION FOR THE STUDY OF ETHICAL PROBLEMS IN MEDICINE AND BIOMEDICAL AND BEHAVIORAL RESEARCH, Defining death, US Government Printing Office, Washington 1981. Il comunicato della Pontificia Accademia delle Scienze può essere consultato in «L'Osservatore Romano» 31-X-1985.

[11] Cfr. LINDBERG, R., Sistemic oxygen deficiences: the respirator brain, in AA.VV., Pathology of the Nervous System, Mc Graw-Hill, New York 1971, pp. 1583-1617

[12] Cfr. AMES III, A., WRIGHT, R.L., KOWADA, M., THURSTON, J.M., MAJNO, G., Cerebral ischemia II. The no-reflow phenomenon, «American Journal of Pathology» LII (1968), pp. 437-453.

[13] Cfr. MOLLARET, P., GOULON, M., Le coma dépassé, «Révue Neurologique» CI (1959), pp. 3-15.

[14] Cfr. CONFERENCE OF MEDICAL ROYAL COLLEGES AND THEIR FACULTIES IN THE UNITED KINGDOM, Diagnosis of brain death, «British Medical Journal» (1976), n. 2, pp. 1187-1188; Diagnosis of death, «British Medical Journal» (1979), n. 1, p. 3320.

[15] Cfr. LAMB, D., Il confine della vita, cit., pp. 88-90.

[16] Cfr. ibid., p. 153.

[17] Cfr. INGVAR ET AL., Survival after severe cerebral anoxia with destruction of the cerebral cortex: The Apallic Syndrome, in «Annals of the New York Academy of Sciences» XXXV (1978), p. 184.

[18] Questa presenza virtuale non è sempre ben compresa. Una buona spiegazione è la seguente: "Etsi in homine inter animam intellectivam, sensitivam, vegetativam non exsistit distinctio realis, exsistit inter eas nihilominus distinctio virtualis. Haec enim habet locum praecise inter ea, quae licet sint a parte rei unum idemque, tarnen ratione perfectionis, quam effectibus suis produnt, aequivalent pluribus entibus, a parte rei distinctis. Porro anima intellectiva praestat effectus non tantum intellectivos sed etiam vegetativos et sensitivos seu tales, quales ab animabus sensitiva et vegetativa praestantur" (SIWEK, P., Psychologia metaphysica, V ed., PUG, Roma 1956, p. 536).

[19] MILLAN PUELLES, A., Fundamentos de Filosofía, VI ed., Rialp, Madrid 1962, p. 216. Sui rapporti tra filosofia e scienze positive, Cfr. pp. 204-217.

[20] Cfr. SIWEK, P., Psychologia Metaphysica, cit., p. 528.

[21] SAN TOMMASO D'AQUINO, De Spiritualibus creaturis, q. un., a.2, ad 7.

[22] A rigor di termini, nessuna facoltà conoscitiva è organica, anche se le facoltà della sensibilità esterna e interna hanno un organo corporale. La conoscenza, a qualsiasi livello, è il possesso immateriale di una forma. È pertanto una relazione forma-forma o atto-atto. La forma della facoltà conoscitiva sensi­bile, oltre che informare l'organo corporale, lo supera, e questo "eccedente formale" è quello che si identifica con l'oggetto intenzionale nell'atto di conoscere. La teoria aristotelica e tomista dell'opera­zione conoscitiva non è ilemorfica. La kantiana, invece, lo è, e per questo distingue nella conoscenza una "materia" e una "forma" a priori.

[23] ARISTOTELE, De anima, II, 1, 412 a 27 e b 5.

[24] Ibid., II, 2, 414 a 12.

[25] MILLAN PUELLES, A., Léxico Filosófico, Rialp, Madrid 1984, voce "Natura", specialmente p. 438.

[26] Cfr. SIWEK, P., Psychologia Metaphysica, cit., p. 539.