TUTTI SIAMO VERAMENTE RESPONSABILI DI TUTTI (2003) [1]

Enciclica Sollicitudo rei socialis, 30.12.1987

 

Enrique Colom

 

Per aggiornare gli insegnamenti dell’enciclica Populorum progressio di Paolo VI nel suo ventesimo anniversario, Giovanni Paolo II pubblicò la Sollicitudo rei socialis (d’ora in poi SRS). In essa realizza un’analisi del mondo attuale, tenendo conto di tutta la verità sull’uomo: anima e corpo, essere comunitario e persona con valore in se stesso, creatura e figlio di Dio, peccatore e redento dal Cristo, debole e corroborato dalla forza dello Spirito. L’enciclica mette in rilievo il fondamento etico dello sviluppo, sottolinea la necessità dell’impegno personale di tutti in favore dei fratelli. Questo sforzo per lo sviluppo di tutto l’uomo e di ogni uomo, è l’unico modo per consolidare la pace e la relativa felicità di questo mondo. In certo qual senso, l’insegnamento dell’enciclica si potrebbe riassumere in una sola frase carica di conseguenze pratiche: «tutti siamo veramente responsabili di tutti» (SRS 38).

Come è risaputo, le encicliche del Papa, anche quelle del Magistero sociale, non sono documenti di carattere politico o sociologico, ma di natura teologica. Una delle idee più sottolineate nella SRS è, appunto, che la povertà, lo sviluppo, l’ecologia, la disoccupazione, la solidarietà, ecc. sono problemi etici prima che tecnici, e la loro soluzione reale e duratura non si trova soltanto in un miglioramento strutturale, ma deve fondarsi su di un cambiamento etico, vale a dire, sulla disposizione di mutare, forse, abiti mentali e vitali che, se autentici, incideranno sulle istituzioni.

Ci limitiamo ora ad analizzare, in rapporto con il suddetto carattere etico, due aspetti dell’enciclica profondamente correlati: la corretta nozione di sviluppo e il tema della solidarietà.

1. Uno sviluppo plenario

L’uomo è persona, non soltanto homo faber o oeconomicus. Perciò, come insegnava la Populorum progressio, il vero sviluppo è il passaggio, per ciascuno e per tutti, da condizioni meno umane a condizioni più umane: «Più umane: l’ascesa dalla miseria verso il possesso del necessario, la vittoria sui flagelli sociali, l’ampliamento delle conoscenze, l’acquisizione della cultura. Più umane, altresì: l’accresciuta considerazione della dignità degli altri, l’orientarsi verso lo spirito di povertà, la cooperazione al bene comune, la volontà di pace. Più umane, ancora: il riconoscimento da parte dell’uomo dei valori supremi, e di Dio che ne è la sorgente e il termine. Più umane, infine e soprattutto: la fede, dono di Dio accolto dalla buona volontà dell’uomo e l’unità nella carità del Cristo che ci chiama tutti a partecipare in qualità di figli alla vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini» (n. 21). Già Paolo VI, come poi farà Giovanni Paolo II, senza tralasciare gli aspetti economico-sociali dello sviluppo, mostra la maggiore importanza dell’ambito spirituale e trascendente.

Certamente, per raggiungere la propria pienezza la persona necessita di “avere” cose, ma queste non bastano, occorre anche la crescita interiore: culturale, morale, spirituale. «L’“avere” oggetti e beni non perfeziona di per sé il soggetto umano, se non contribuisce alla maturazione e all’arricchimento del suo “essere”, cioè alla realizzazione della vocazione umana in quanto tale» (SRS 28). L’esenziale è, pertanto, la realizzazione piena della persona, ossia “essere” di più, crescere in umanità senza lasciar fuori nessuna virtualità umana, e farlo in modo armonico, secondo un’autentica gerarchia di valori, secondo l’intera verità sull’uomo. Perciò il Papa non propone e neppure pensa a un’antinomia tra “essere” e “avere”, ma mette in guardia contro un “avere” che ostacoli l’“essere”, proprio o altrui, ed insegna che, se ci fosse incompatibilità, risulta preferibile “avere” di meno che “essere” di meno.

Orbene, la più importante caratteristica della verità sull’uomo, dipende del fatto che questi è creatura di Dio, elevata ad essere figlio Suo: da tale condizione ricevono le persone la loro consistenza, verità, bontà, il proprio ordine e la legge conveniente. Pertanto, compiere i disegni divini è l’unico impegno veramente “assoluto” della persona, che lo indirizza alla sua pienezza integrale; gli altri impegni non vengono annullati, ma devono subordinarsi a esso. Difatti, lo sviluppo umano – ricorda la SRS – «è possibile solo perché Dio Padre ha deciso fin dal principio di rendere l’uomo partecipe della sua gloria in Gesù Cristo risorto (…), e in lui ha voluto vincere il peccato e farlo servire per il nostro bene più grande, che supera infinitamente quanto il progresso potrebbe realizzare» (SRS 31). Viceversa, l’uomo può costruire la società e «organizzare la terra senza Dio, ma senza Dio egli non può alla fine che organizzarla contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano» (Populorum progressio, 42).

Compiere i disegni divini e partecipare alla vita di Cristo esige generosità, altruismo, preoccupazione per le cose di Dio e del prossimo, con un certo distacco per le cose proprie. Ma è questo atteggiamento che assicura, alle persone e alle comunità, la massima felicità ed efficacia che si possa raggiungere; pure nel campo sociale ed economico si compiono le parole di Gesù: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!» (At 20,35). Non va inoltre dimenticato che Dio è il Signore dell’intero universo, di ogni minuto, del più piccolo evento; perciò, come insegna Giovanni Paolo II, la piena attuazione dello sviluppo sarà frutto principalmente della «fedeltà alla nostra vocazione di uomini e di donne credenti. Perché dipende, innanzitutto, da Dio» (SRS 47).

Non è questa, purtroppo, la mentalità più diffusa: le dottrine utilitaristiche misurano il progresso esclusivamente in termini immanenti e terreni. Tuttavia, le palesi contraddizioni che si osservano nel nostro mondo, mettono più di rilievo «l’intrinseca contraddizione di uno sviluppo limitato soltanto al lato economico. Esso subordina facilmente la persona umana e le sue necessità più profonde alle esigenze della pianificazione economica o del profitto esclusivo (...). Quando gli individui e le comunità non vedono rispettate rigorosamente le esigenze morali, culturali e spirituali, fondate sulla dignità della persona e sull’identità propria di ciascuna comunità, a cominciare dalla famiglia e dalle società religiose, tutto il resto – disponibilità di beni, abbondanza di risorse tecniche applicate alla vita quotidiana, un certo livello di benessere materiale – risulterà insoddisfacente e, alla lunga, disprezzabile» (SRS 33). Ed è palese che il mondo del supersviluppo soffre queste insoddisfazioni, e che pertanto necessita capire e praticare una nozione più profonda ed esatta di sviluppo.

Tale nozione, in realtà, non dovrebbe disgiungere lo sviluppo umano dal progresso economico; essi vanno di pari passo, come ricordava Giovanni Paolo II: «Le origini morali della prosperità sono ben note nel corso della storia. Esse si collocano in una costellazione di virtù: laboriosità, competenza, ordine, onestà, iniziativa, sobrietà, risparmio, spirito di servizio, fedeltà alle promesse, audacia: insomma amore per il lavoro ben fatto. Nessun sistema o struttura sociale può risolvere, come per magia, il problema della povertà senza queste virtù; alla lunga, sia i programmi che il funzionamento delle istituzioni riflettono queste abitudini degli esseri umani, che si acquistano essenzialmente nel processo educativo dando vita ad una autentica cultura del lavoro»[2]. Ciò che si richiede per vivere armonicamente lo sviluppo trascendente e quello terreno dell’uomo è che ogni persona realizzi le proprie attività, incluse quelle socioeconomiche, in modo che raggiungano la loro pienezza di significato umano, d’accordo con il destino ultimo trascendente dell’uomo; e che le altre persone e la società abbiano la consapevolezza del valore e delle esigenze proprie di ciascun essere umano, e agiscano di conseguenza.

Un punto fermo di tali esigenze umane è la necessità di compartecipare nella produzione e nella fruizione dei beni umani, a tutti i livelli; ancor più oggi, che è accresciuta l’interdipendenza. Ciò si realizza appunto mediante il principio e la virtù della solidarietà.

2. Solidarietà e carità

Senza dubbio la solidarietà è uno dei temi più frequenti negli insegnamenti di Giovanni Paolo II. Il Papa insiste tanto su di essa, da un canto, per la sua intima relazione con la carità – amore di Dio e del prossimo –, culmine della vita cristiana; d’altro canto, perché nelle attuali condizioni di sviluppo tecnologico, le sperequazioni socioeconomiche sono prodotto dell’egoismo, di non vedere negli altri dei fratelli, figli del Padre eterno, persone umane con la stessa dignità; sono cioè prodotto di un comportamento insolidale. Sono due ragioni vicendevolmente connesse: la prima è prettamente religiosa, la seconda è sociale, ma con un fondamento trascendente. Ci soffermeremo brevemente su entrambe.

San Giovanni ricorda che «Dio è amore» (1 Gv 4,8.16), un amore che è costante donazione reciproca all’interno della Trinità. E, siccome l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,26), anche dell’uomo si deve dire che la sua più intima verità si trova nell’amore, nella donazione. Ciò è in perfetta sintonia con il “comandamento nuovo” di Gesù Cristo in cui si racchiude tutta la legge e i profeti: la carità è la legge fondamentale della perfezione umana e perciò anche della trasformazione del mondo. Ma, tenendo conto gli equivoci che esistono sulla nozione di amore, occorre sottolineare che il vero amore comporta la gratuità (Gv 3,16; 15,13) e il servizio (1 Pt 2,16; Gal 5,13), e non tanto la ricerca del proprio bene (Mt 16,25); ed abbraccia tutte le dimensioni della persona: nessuna caratteristica umana si trova al di fuori della carità e dell’amore.

La Rivelazione e la ragione mostrano che l’oggetto supremo di questo amore umano è Dio stesso, somma Bontà e ultimo Fine di tutta la creazione; perciò, come già detto, l’autentica grandezza della persona si trova nella sua relazione personale – unica ed irripetibile – con il Creatore. Ma appunto poiché Dio vuol bene tutto quanto ha fatto, il vero amore di Dio comporta l’amore delle creature, in particolare degli altri esseri umani. Difatti non esiste un vero amore di Dio se non si amano le sue creature, né viceversa. La dimensione fraterna è così essenziale per la vita del cristiano (e di qualsiasi uomo), che non si può immaginare un orientamento verso Dio che dimentichi i vincoli che uniscono ogni persona con i suoi fratelli gli uomini.

Alla luce di queste verità si evince che la vita cristiana non si può assolvere come se le persone fossero slegate fra di loro. Anzi, l’impegno della persona nel progresso materiale e spirituale di tutta la società è una parte integrante della vocazione con cui Dio chiama ogni uomo: l’identificazione con l’amato propria dell’amore porta a tenerlo presente in tutto il proprio agire, che si realizza come donazione gratuita alla persona amata. Ciò significa che l’amore di Dio esige l’impegno sociale e che tale impegno trova il suo fondamento saldo in un’autentica vita di amore: soltanto un amore concorde con l’intera verità sull’uomo è in grado di impostare una vita sociale degna della persona. Tale realtà viene confermata, negativamente, con la nascita e la crescita della “questione sociale”, appunto in un’epoca in cui il pensiero ideologico segnalava la contrapposizione, la lotta e perfino l’odio come il motore della storia. Da quanto detto si desume l’esigenza di che tutti i componenti della società debbono impegnarsi per amare – con opere e verità – il prossimo, non soltanto nei “rapporti corti”, ma con un amore che abbracci ordinatamente anche i più lontani; un amore personale che richiede anche la sua istituzionalizzazione in ordinamenti e strutture sociali.

3. Origine etica della questione sociale

«Il mondo è malato», diceva Paolo VI (Populorum progressio, 66), e sembra che da allora si sia aggravata la malattia: basta pensare ai campi profughi, agli esiliati, alle zone calde (guerra, guerriglia e terrorismo), alle discriminazioni razziali e religiose, alle mancanze di libertà politica e sindacale, ai fenomeni di evasione come la droga e l’alcolismo, alle aree dove è istituzionalizzato lo sfruttamento e la corruzione, ai posti di lavoro dove si ha l’impressione di essere usati come mezzi e ai luoghi dove l’umiliazione è divenuta sistema di vita, alle zone di fame, di siccità e di malattie endemiche, alle campagne antinataliste molte volte di stampo razzistico, alla diffusione dell’aborto e dell’eutanasia, ecc.: «Il panorama del mondo odierno, compreso quello economico, anziché rivelare preoccupazione per un vero sviluppo che conduca tutti verso una vita “più umana” – come auspicava l’enciclica Populorum Progressio –, sembra destinato ad avviarci più rapidamente verso la morte» (SRS 24).

Certamente si può dire che, negli ultimi decenni, c’è stato un notevole progresso tecnico, è aumentato mediamente l’ingresso pro capite, è migliorata l’attenzione sanitaria, le comunicazioni e i trasporti sono più spediti, ecc. Però il suddetto quadro di morte e di povertà palesa che anche le sofferenze di origine socioeconomica vanno in salita. Invero sono «una moltitudine innumerevole di uomini e donne, bambini, adulti e anziani, vale a dire di concrete ed irripetibili persone umane, che soffrono sotto il peso intollerabile della miseria. Sono molti milioni coloro che son privi di speranza per il fatto che in molte parti della terra, la loro situazione si è sensibilmente aggravata» (SRS 13). L’estensione numerica dell’oppressione e della miseria – dei segni di morte – non rappresenta soltanto una statistica da studiare freddamente: dietro i dati ci stanno esseri umani con la loro irripetibile personalità, c’è l’uomo concreto, unico, creato e redento dal Signore, a cui si nega il riconoscimento di essere quell’immagine di Dio, sigillo della sua dignità personale. Sono uomini che non hanno il minimo necessario per vivere in modo umano, e tuttavia ognuno di loro meriterebbe di essere alleviato dalla sua indigenza.

Ci si trova così di fronte a un tremendo paradosso: gli uomini sono consapevoli – in gran misura – dei criteri del vero sviluppo, vogliono – in gran parte – realizzare il bene ed evitare il male, posseggono – in quantità sufficiente – i mezzi tecnici per farlo; nondimeno il mondo continua ad essere malato, forse più di prima. Il paradosso richiede così una spiegazione – ben più profonda dell’analisi socioeconomica – che raggiunga la sorgente ultima dei mali nel mondo; richiede un’analisi che si occupi del nucleo più intimo del comportamento umano: l’analisi etica, che arriva alla stessa origine delle strutture ingiuste, che arriva cioè alla radice dell’agire immorale dell’uomo, a quello che il cristianesimo chiama peccato.

Effettivamente, se si vuol arrivare alla causa ultima dei mali sociali, deve cercarsi l’autentico nucleo del comportamento morale: l’agire umano ha la sua radice più profonda nella persona o nelle strutture? I materialismi, di qualsiasi stampo, che rigettano la spiritualità, indicano le strutture – società, educazione, capitalismo, ecc. – quale ultima radice del male: tuttavia, negando la responsabilità personale, negano pure, almeno in pratica, la libertà e, di conseguenza, la responsabilità e la possibilità di ribaltare la situazione. Al contrario, la ragione e la fede hanno sempre difeso l’autentica libertà – e conseguente responsabilità – della persona in relazione all’agire umano; nel profondo del proprio “io”, l’uomo si sente e si sa padrone delle sue decisioni: è lì che si trova la vera radice della condotta. Si giunge così a «individuare le cause di origine morale che, sul piano del comportamento degli uomini considerati persone responsabili, interferiscono per frenare il corso dello sviluppo e ne impediscono il pieno raggiungimento» (SRS 35).

E l’agire immorale della persona altro non è che il peccato, con le sue conseguenze istituzionalizzate – le “strutture di peccato” – che, condizionando la condotta degli uomini diventano sorgente di altri peccati: «La vera natura del male, a cui ci si trova di fronte nella questione dello “sviluppo dei popoli”: si tratta di un male morale, frutto di molti peccati, che portano a “strutture di peccato”» (SRS 37). Certamente «“peccato” e “strutture di peccato” sono categorie che non sono spesso applicate alla situazione del mondo contemporaneo. Non si arriva, però, facilmente alla comprensione profonda della realtà quale si presenta ai nostri occhi, senza dare un nome alla radice dei mali che ci affliggono» (SRS 36). E «questi atteggiamenti e “strutture di peccato” si vincono solo – presupposto l’aiuto della grazia divina – con un atteggiamento diametralmente opposto: l’impegno per il bene del prossimo con la disponibilità, in senso evangelico, a “perdersi” a favore dell’altro invece di sfruttarlo, e a “servirlo” invece di opprimerlo per il proprio tornaconto (cfr. Mt 10,40-42; 20,25; Mc 10,42-45; Lc 22,25-27)» (SRS 38).

Chi non volesse riconoscere – e rimediare – tale fonte morale dei mali sociali, neanche vorrebbe seriamente guarire dal male; è necessario, perciò, esaminare i propri peccati, soprattutto – quando si parla di mali socioeconomici – quelli che influiscono più direttamente sulla vita sociale: l’orgoglio, l’odio, l’ira, l’avarizia, l’invidia, ecc., senza rifugiarsi in un’anonima collettività; e riconoscere anche le deleterie conseguenze di questi peccati nella vita personale, familiare, sociale, e politica. «Diagnosticare così il male significa identificare esattamente, a livello della condotta umana, il cammino da seguire per superarlo» (SRS 37). In questo senso ci si trova innanzi a una valutazione esigente ma positiva (cfr. SRS 36), com’è positiva la diagnosi medica che cerca di guarire un malato. Sarebbe negativa, invece, perché non arriverebbe a buona destinazione, un’analisi che non indicasse la radicalità dei problemi.

L’identificazione della radice del male, incoraggia a cercare le soluzioni e i mezzi più opportuni per debellarlo. Essi, come l’ostacolo, saranno d’indole principalmente morale, a livello personale (peccato) e a livello istituzionale (strutture di peccato): «Quando siano disponibili risorse scientifiche e tecniche, che con le necessarie e concrete decisioni di ordine politico debbono contribuire finalmente a incamminare i popoli verso un vero sviluppo, il superamento dei maggiori ostacoli avverrà soltanto in forza di determinazioni essenzialmente morali, le quali, per i credenti, specie se cristiani, s’ispireranno ai principi della fede con l’aiuto della grazia divina» (SRS 35). Non possiamo illuderci: non si arriverà, nella giustizia e nella carità sociale, più in là di quanto si arriva nella giustizia e nella carità personale. L’atteggiamento morale di una collettività dipende dalla conversione personale dei cuori, dall’impegno nella preghiera, dalla grazia dei sacramenti, dallo sforzo nelle virtù dei suoi componenti. Tuttavia, la priorità della conversione personale non elimina, al contrario, la necessità di un cambiamento strutturale. In questo senso il Papa richiama sia a un’efficace volontà politica sia a una decisione essenzialmente morale (cfr. SRS 35; 38): la prima da sola potrebbe – fortuitamente – produrre qualche cambiamento, l’esperienza però attesta la sua futilità e che, sovente, le ingiustizie cagionate sono maggiori di quelle corrette; la seconda senza la prima rimarrebbe sterile per la sua inautenticità: non è vera conversione interiore quella che non sbocca in miglioramenti sociali.

4. La solidarietà sociale

Veniamo così all’aspetto più prettamente sociale della solidarietà. Quando il concetto giuridico di solidarietà fu applicato alla vita sociale, lo si incorporò con una carica ideologica precisa: Comte ne fece il fondamento della sua sociologia positiva, e nelle attività economiche si prese come insegna di rivendicazioni sociali, per lo più violente. Sicché l’idea di solidarietà venne rigettata dall’ideologia liberale come cagione di violenza e pretesto per godere, senza sforzo, del lavoro altrui; e anche molti settori cattolici ne diffidarono in un primo momento. Tuttavia, la nozione di solidarietà riecheggia il senso etimologico – partecipare in solidum – e significa l’insieme di legami che uniscono gli uomini tra loro e li spingono all’aiuto reciproco.

Il fenomeno della socializzazione ha portato a ritmo crescente ad una sempre più serrata interdipendenza, a livello personale, associativo, nazionale e regionale; nessuna persona o comunità può conseguire da sola i suoi obiettivi: i mutui rapporti causano un insieme di connessioni con influssi vicendevoli, ogni volta più potenti. Sicché, pure a livello pragmatistico, risulta conveniente sforzarsi nella cooperazione e nell’aiuto reciproco.

Al di sopra di questa ragione pragmatica, l’interdipendenza, vista sotto il profilo etico, richiama un modo di agire virtuoso e stabile, che conforma una condotta solidale, intesa come impegno concreto al servizio dei fratelli: «Si tratta, innanzitutto, dell’interdipendenza, sentita come sistema determinante di relazioni nel mondo contemporaneo, nelle sue componenti economica, culturale, politica e religiosa, e assunta come categoria morale. Quando l’interdipendenza viene così riconosciuta, la correlativa risposta, come atteggiamento morale e sociale, come “virtù”, è la solidarietà» (SRS 38).

In tal modo, la solidarietà va vista come fine e criterio dell’organizzazione sociale, e uno dei principi fondamentali dell’insegnamento sociale cristiano. Non lo è, però, come un buon desiderio moralizzante, ma come una forte esigenza della natura umana: la persone è un essere per gli altri e può svilupparsi soltanto in una apertura oblativa al prossimo. Ciò è anche sublimato dal messaggio evangelico, come insegna la SRS: «La coscienza della paternità comune di Dio, della fratellanza di tutti gli uomini in Cristo, “figli nel Figlio”, della presenza e dell’azione vivificante dello Spirito Santo, conferirà al nostro sguardo sul mondo come un nuovo criterio per interpretarlo. Al di là dei vincoli umani e naturali, già così forti e stretti, si prospetta alla luce della fede un nuovo modello di unità del genere umano, al quale deve ispirarsi, in ultima istanza, la solidarietà. Questo supremo modello di unità, riflesso della vita intima di Dio, uno in tre Persone, è ciò che noi cristiani designiamo con la parola “comunione”» (SRS 40). Una comunione così forte che fa sì che tutti siamo veramente responsabili di tutti, poiché ciò che facciamo agli altri lo facciamo a noi stessi, anzi a Gesù Cristo (Mt 25,40.45).

5. La pratica della solidarietà

La solidarietà, pertanto, cerca con ogni mezzo di promuovere l’inalienabile dignità di ogni uomo – qualunque sia il colore della sua pelle, il livello sociale cui appartiene, le idee politiche o religiose che professi, ecc. –, e di contribuire a che si sviluppi come persona; la solidarietà mira a che tutti gli uomini possano agire, nella società e nel lavoro, con la coscienza e la responsabilità proprie delle persone; ed è, pertanto, il dinamismo che vivifica e rende efficaci i meccanismi e le strutture socioeconomiche, non permettendo che si convertano in meccanismi perversi e strutture di peccato. Così, la solidarietà non deve confondersi con «un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno» (SRS 38).

E, benché la solidarietà comprenda tutti gli uomini, una ragione d’urgenza spiega che questo impegno debba viversi più intensamente quanto più difficili siano le situazioni altrui: condizioni fisiche o morali degradanti, prepotenza di certi settori sociali o dello Stato, ecc. Non può mancare la solidarietà con le ampie zone di miseria e di emarginazione che non contano sulla voce e sulla forza di un associazionismo organizzato. Solidarietà, quindi, con l’intera vita sociale, che non si trasforma in egoismo di gruppo o di classe, perché tutti cercano la giustizia sociale e il bene comune, senza aspettare che a risolvere i problemi siano gli altri: «Coloro che contano di più, disponendo di una porzione più grande di beni e di servizi comuni, si sentano responsabili dei più deboli e siano disposti a condividere quanto possiedono. I più deboli, da parte loro, nella stessa linea di solidarietà, non adottino un atteggiamento puramente passivo o distruttivo del tessuto sociale, ma, pur rivendicando i loro legittimi diritti, facciano quanto loro spetta per il bene di tutti. I gruppi intermedi, a loro volta, non insistano egoisticamente nel loro particolare interesse, ma rispettino gli interessi degli altri» (SRS 39).

Tutto questo sforzo per la solidarietà sociale acquista il suo valore e la sua forza in un’atteggiamento di solidarietà personale; così l’enciclica: «L’esercizio della solidarietà all’interno di ogni società è valido, quando i suoi componenti si riconoscono tra di loro come persone» (SRS 39). Ciò implica superare le tendenze all’anonimato nei rapporti umani; convertire la “solitudine” in “solidarietà”, la “diffidenza” in “collaborazione”; promuovere la comprensione, la mutua fiducia, l’aiuto fraterno, l’amicizia, la disposizione a “perdersi” a favore dell’altro. Infatti, «alla luce della fede, la solidarietà tende a superare se stessa, a rivestire le dimensioni specificamente cristiane della gratuità totale, del perdono e della riconciliazione. Allora il prossimo non è soltanto un essere umano con i suoi diritti e la sua fondamentale eguaglianza davanti a tutti, ma diviene la viva immagine di Dio Padre, riscattata dal sangue di Gesù Cristo e posta sotto l’azione permanente dello Spirito Santo. Egli, pertanto, deve essere amato, anche se nemico, con lo stesso amore con cui lo ama il Signore, e per lui bisogna essere disposti al sacrificio, anche supremo: “Dare la vita per i propri fratelli” (cfr. 1 Gv 3,16)» (SRS 40).

Parole forti, come forte è il cristianesimo, che non è fatto per uomini con “mentalità da schiavi”, bensì per gente padrona di se stessa, fino – quando necessario – a dare la vita e, per di più, i propri beni per i fratelli, cioè per tutti gli uomini, anche se nemici. Tenendo conto, come già accennato, che questo “perdersi” comporta raggiungere il massimo di pienezza, lo sviluppo più perfetto. Se questo atteggiamento sembra “ideale” e poco “realistico”, non deve dimenticarsi che questo “ideale” sarà l’unico a costruire una società nuova e un mondo migliore, a permettere un autentico sviluppo delle persone e delle comunità, a giungere a una pace vera e duratura. E soprattutto non deve dimenticarsi che è lo stesso Signore Gesù che viene a interpellarci personalmente, di fronte a tanti drammi d’indigenza e di bisogno di tanti nostri fratelli e sorelle (cfr. SRS 13).

6. Conclusione

Dobbiamo, pertanto, essere convinti che l’autentico sviluppo umano – personale e sociale –, fine e condizione di qualsiasi miglioramento, è il progresso della storia della salvezza, la crescita del Regno di Dio. Difatti la SRS sottolinea che gli ostacoli e i mezzi che conducono «al pieno sviluppo non sono soltanto di ordine economico, ma dipendono da atteggiamenti più profondi configurabili, per l’essere umano, in valori assoluti» (SRS 38).

La Sollicitudo rei socialis propone a tutti gli uomini, in particolare ai cristiani di responsabilizzarsi di questo sviluppo integrale di ogni altro uomo. È questo un ideale arduo, cioè che richiede uno sforzo costante, ma che è confortato dalla grazia del Signore. La Chiesa annuncia la realtà di questo sviluppo, già operante nel mondo, ma non ancora consumato; ed afferma anche, fondandosi sulla promessa divina – volta a garantire che la storia presente non resta chiusa in se stessa, ma è aperta al Regno di Dio –, la possibilità del superamento degli intralci che si frappongono alla crescita integrale delle persone; perciò ha fiducia nel raggiungimento di una vera – benché parziale in questa terra – liberazione (cfr. SRS 26; 47). D’altro canto, «la Chiesa ha fiducia anche nell’uomo, pur conoscendo la malvagità di cui è capace, perché sa bene che – nonostante il peccato ereditato e quello che ciascuno può commettere – ci sono nella persona umana sufficienti qualità ed energie, c’è una fondamentale “bontà” (cfr. Gn 1,31), perché è immagine del Creatore, posta sotto l’influsso redentore di Cristo, “che si è unito in certo modo a ogni uomo” (cfr. Gaudium et spes, 22; Redemptor hominis, 8), e perché l’azione efficace dello Spirito Santo “riempie la terra”(Sap 1,7)» (SRS 47).

 

Bibliografia

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[1] Contributo allopera: Aa.Vv., Giovanni Paolo teologo. Nel segno delle encicliche (G. Borgonovo e A. Cattaneo, cur.), Mondadori, Milano 2003, pp. 128-141.

[2] GIOVANNI PAOLO II, Discorso alla CEPALC, 3-IV-1987, 9, LOsservatore Romano, 5-IV-1987, p. 7.