Diritto positivo, diritto naturale e giustizia oggi (2003)[1]

 

Angel Rodríguez Luño

 

Uno studio completo del tema che mi è stato proposto richiederebbe molti passaggi e distinzioni preliminari: che cosa è il diritto positivo e il diritto naturale? in che senso è naturale quest’ultimo? che relazione esiste tra il diritto naturale e la legge morale naturale? come va intesa la legge morale naturale? Dovendo procedere in modo molto sintetico, dico subito che per diritto positivo intendo qui le leggi civili, e che il problema del loro rapporto con il diritto naturale è, in ultima analisi, quello del loro rapporto con la giustizia. Di fronte a qualsiasi disposizione normativa dello Stato (o della Regione, Comune, ecc.) ci si può chiedere: ma, alla fin fine, questa legge è giusta? quanto stabilito da essa è conforme alla giustizia? Non vedo come si potrebbe negare che queste domande siano sensate, dato che tutti conosciamo leggi che sono state derogate o modificate perché il legislatore e i cittadini hanno finito per capire che erano contrarie alla giustizia. Si pensi, per esempio, alle leggi che in alcuni stati hanno sancito per anni un regime di discriminazione razziale.

La giustizia, dunque, non si esaurisce nella positività della legge. È noto come poneva il problema Aristotele. «Nel giusto politico ci sono due parti, quella naturale e quella legale: è naturale il giusto che ha dovunque la stessa validità, e non dipende dal fatto che venga riconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è affatto indifferente che sia in un modo piuttosto che in un altro, ma che non è indifferente una volta che sia stato stabilito»[2]. Questo modo di porre il problema ha il merito di evidenziare che la giustizia naturale non è un corpo legale astratto, astorico e separato dal giusto politico, ma una componente o uno strato di questo. Il giusto naturale è lo strato fondamentale e originante della giustizia, il fondamento ultimo della legittimità politica, ma è tuttavia insufficiente da solo per ordinare la vita sociale. Perciò deve essere concretizzato, determinato e sviluppato in funzione del bene comune politico di ogni popolo dal giusto per convenzione di legge, vale a dire, dalla parte del diritto politico che qui chiamiamo diritto positivo.

Così avviene anche nelle nostre società democratiche. La maggioranza delle nostre leggi sono in ultimo termine concretizzazioni, determinazioni, prolungamenti del senso della giustizia che tutti abbiamo per natura, e non per libera scelta. Molte delle nostre leggi saranno forse perfettibili, ma io almeno mi sento obbligato in coscienza a rispettare nella extragrande maggioranza — nella quasi totalità — dei casi quello che dice e quello che omette il codice civile, il codice penale, il codice stradale, le leggi sanitarie, ecc. Ma ci sono alcune leggi, forse poche numericamente ma molto rilevanti dal punto di vista qualitativo, che entrano gravemente in contraddizione con il giusto naturale, vale a dire, ci sono relazioni sociali e comportamenti ingiusti per natura che invece vengono considerati giusti per convenzione di legge. Basti pensare, tanto per fare un esempio, ad alcune leggi che negano o svuotano il diritto alla vita di alcune categorie di persone, come sono le leggi che rendono legale l’aborto.

C’è chi attribuisce la radice di questo gravissimo fenomeno al modo in cui le leggi vengono elaborate e promulgate nelle nostre società. I parlamenti odierni, si dice, si sentono investiti da un potere di legiferare senza limite alcuno, e così negano il diritto naturale. A me questo non convince, per diverse ragioni. La prima è che gli stati totalitari hanno promulgato leggi ingiuste ancora più numerose, più gravi, e con più facilità (si pensi alle leggi naziste e sovietiche). La seconda è che nelle nostre società i parlamenti sono consapevoli dei loro limiti, anche se talvolta si può avere l’impressione che tale consapevolezza si affievolisce: il Parlamento italiano, per esempio, sa di non poter rompere l’unità dello Stato italiano, e di non poter decretare la schiavitù o la discriminazione razziale e, senza ricorrere a cose di tanto peso, sa di non poter stabilire per legge che i martedì coloro che comprano qualsiasi cosa pagheranno il doppio del prezzo stabilito, e che i venerdì coloro che vendono riceveranno soltanto la metà del prezzo della merce. La terza è che se talvolta sembra che tutto si risolva nella mediazione e composizione di contrapposti interessi di parte, il valore della vita rende preferibile che tale mediazione avvenga in parlamento attraverso la parola e il voto anziché venir risolta con la violenza e la forza delle armi. In fine, e forse direi soprattutto, perché gli uomini non abbiamo inventato fino a questo momento niente di meglio o, se si vuole, niente di meno imperfetto per ordinare la vita sociale con un minimo di libertà e di giustizia. Sistemi politici in vigore molti secoli fa riuscivano ad ordinare la vita sociale, ma producevano ugualmente molte ingiustizie, diverse dalle nostre solo perché le condizioni morali, sociali e tecnologiche erano diverse, ma in ogni caso ingiustizie gravi.

Senza togliere nulla a quanto appena detto, è doveroso prendere atto che il modo in cui in alcuni paesi si legifera su questioni riguardanti il diritto alla vita, la bioetica e la famiglia costituisce una gravissima ferita alla giustizia. Probabilmente non siamo peggiori di prima, ma lo sviluppo delle scienze biomediche e farmacologiche, dei mezzi di comunicazione sociale, e della tecnologia in generale ha messo nelle nostre mani un grande potere. In assenza di un saggio autocontrollo individuale, sociale e politico, più grande è il potere di fare, più disastrose sono le conseguenze che ne possono derivare.

Le leggi ingiuste di cui parliamo nascono dall’oscuramento, e talvolta dalla perdita, di percezioni etiche di notevole importanza, oscuramento che viene poi rafforzato dalle stesse leggi ingiuste. Alcune di queste convinzioni etiche per lunghi secoli sono state considerate chiare e indiscutibili, e come tali godevano di un’accettazione generale e pacifica. Altre corrispondono, invece, a problemi nuovi posti dallo sviluppo della tecnica e dall’evoluzione del sistema sociale. Le cause dell’oscuramento di evidenze etiche così basilari dovrebbe essere oggetto di un’accurata indagine, la quale dovrà tener conto dei principi e delle condizioni che determinano la formazione, l’evoluzione e l’oscuramento delle percezioni morali immediate. Ma, in fin dei conti, ciò che viene a mancare è una concezione adeguata del bene umano globale, concezione che sottostà ad ogni discorso normativo concreto. Ed è su questo piano, strettamente legato all’esperienza comune dei rapporti umani e delle forme del vivere, che si dovrebbe agire in ordine al recupero di una visione adeguata dei contenuti della giustizia.

Principio fondamentale e strutturante del senso naturale della giustizia è il riconoscimento del valore della persona. Vale a dire, riconoscere che ogni uomo, per il semplice fatto di essere uomo, ha la stessa personalità, soggettività e dignità che ho io. Diritto è il vincolo irrevocabile e inalienabile che lega a me i beni che possiedo per natura (vita, libertà, ecc.) o che ho acquistato legittimamente e che sono necessari o convenienti per la mia vita e il mio sviluppo umano. La giustizia richiede riconoscere volentieri che lo stesso vincolo inalienabile esiste tra gli altri e i loro beni, e questo non soltanto perché tale riconoscimento in qualche modo possa risultare vantaggioso per me, ma soprattutto perché è buono per gli altri. Nella giustizia affiora già la capacità di autotrascendenza della persona umana.

Per passare ad un’ulteriore concretizzazione dei contenuti della giustizia è necessario indagare sulla natura e il senso dei beni umani e, in fondo, del bene umano globale. Tutti hanno diritto alla libertà, ma che cosa è la libertà? Esiste una libertà di rubare, di abortire, di essere infedele, di clonare, di congelare esseri umani allo stato embrionale? Gli stessi problemi si pongono per gli altri beni umani. E su questo problema, importantissimo in pratica, sono mancanti molte delle attuali teorie della giustizia, dalle quali dovremmo poter aspettarci una parola di speranza per il futuro. Per proporre un solo esempio tra altri possibili, ascoltiamo Habermas: «Nelle società moderne noi incontriamo un pluralismo sia di individuali progetti di vita sia di forme di vita collettive —e una corrispondente molteplicità di idee della vita buona. Perciò bisogna che noi abbandoniamo una delle due opzioni: o la pretesa della filosofia classica di poter mettere in una gerarchia i modi di vivere concorrenti, fondando al vertice della stessa un modo di vivere privilegiato nei confronti di tutti i rimanenti; oppure il moderno principio di tolleranza secondo il quale una prospettiva di vita è così buona  — o almeno ha lo stesso diritto di esistere ed essere riconosciuta — come ogni altra»[3]. Per una motivazione etica (tolleranza), importante ma qui certamente non ben elaborata, si vieta alla filosofia, al diritto e a qualsiasi riflessione che abbia la pretesa di validità pubblica, di discutere e di indagare sugli stili di vita, sui modi di vivere, sul valore del tipo di vita che si desidera. Ma senza questa indagine non è possibile un discorso normativo sui contenuti della giustizia, cioè sui beni umani. Un discorso giuridico sull’informazione, o sulla bioetica, presuppone un giudizio sugli stili di vita. Se si ammette, per esempio, che nulla ci sia da dire nei confronti di chi tutto sacrifica sull’altare dei soldi, difficilmente si arriverà ad una fondazione convincente del dovere del riconoscimento della persona in quanto tale. Ci si può provare, ma chi vive per i soldi non sarà mai convinto.

I criteri puramente formali (uguale rispetto, reciprocità, uguaglianza, ecc.) a poco servono senza criteri di indole sostanziale. Non è lo stesso essere tutti ugualmente ricchi o ugualmente poveri, ugualmente istruiti o ugualmente ignoranti, ugualmente sottoposti a leggi giuste o a leggi ingiuste. Il rispetto che abbiamo ugualmente verso tutti può essere sufficiente o insufficiente. Per non dir nulla delle tante situazioni asimmetriche, per le quali la reciprocità dice ben poco. Tutti gli adulti sono ben sicuri che mai ritorneranno nel seno della propria madre, in modo che essa eventualmente potesse decidere altrimenti per quanto riguarda la nostra nascita. Nessuno di noi diventerà il clone di un altro.

Certamente che ciascuno è responsabile della propria vita. A nessuno è lecito usare violenza “per il nostro bene”. L’uso della coercizione civile e politica va sapientemente regolato secondo giustizia. In materia religiosa o comunque di coscienza va escluso, salvo manifeste esigenze di ordine pubblico. Ma ciò che molte moderne teorie della giustizia vietano, e rendono comunque difficile, non è la violenza, ma la libera discussione, l’indagine filosofica, l’approfondimento aperto e leale dei nostri veri problemi. Anche perciò si diceva prima che l’esistenza di un libero parlamento è un grande bene. Ciò che dispiace è che coloro che ne hanno accesso talvolta non si lascino interpellare dalle ragioni degli altri, siano succubi da pregiudizi (quando interessa a scopi dialettici, più ci si richiama alla giustizia meno “laico” si è), deliberino a partito preso e, in definitiva, facciano orecchi da mercante.

Invocare il diritto naturale altro non è che un appello ad una libera, rigorosa e onesta indagine razionale sul bene globale dell’uomo.



[1] Pubblicato in «Nuntium» VII/19 (2003), pp. 45-50.

[2] Aristotele, Etica nicomachea, V, 7: 1134 b 18-21. Abbiamo modificato leggermente la traduzione italiana di Claudio Mazarelli (Rusconi, Milano 1993).

[3] Habermas, J., Teoria della morale, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 88.